Borghi di Budoni

Nuditta

l significato di questo toponimo è facilmente intuibile. “Nuditta” ci fa pensare a qualcosa di spoglio, nudo, ed è proprio da questo che deriva il suo nome. Fino al 1800 questo borgo sorgeva tra una fitta vegetazione, poi l'uomo iniziò a tagliare i secolari ginepri, i lecci e i tassi: la zona attorno a Nuditta e a Monte Nieddu venne così disboscata. I primi tagli che interessarono la zona risalgono alla fine del 1800, quando arrivarono gruppi di taglialegna lucchesi e piemontesi che sino al 1920 circa tagliarono tutto quello che trovarono nel territorio. L'esigenza era quella di produrre carbone e traverse per le Ferrovie dello Stato e proprio per questo motivo, Nuditta rimase spoglia della sua vegetazione, soprattutto nel periodo fascista.

UNA FALSA ILLUSIONE

All'inizio, quando si avviarono i lavori, gli abitanti della zona interessata dal disboscamento, gridarono “al miracolo”, credendo di aver trovato l'America dietro casa. A Nuditta, così come negli altri borghi dell'attuale comune di Budoni, si viveva di agricoltura e di pastorizia e, soprattutto per chi non possedeva terreni o bestiame, la vita non era facile. I sacrifici erano parecchi e il cibo sempre troppo poco. Il taglio della foresta per molti rappresentò l’illusione dell’aumento del lavoro e quindi del guadagno. Decine e decine di uomini della zona lavorarono per anni al taglio della vegetazione circostante e alla preparazione delle carbonaie; i buoi e i carri tradizionalmente utilizzati per i lavori agricoli furono noleggiati per il trasporto del carbone dalle zone più interne al mare, per l'imbarco. Ma come tutti i miraggi anche questo terminò, e nel peggiore dei modi: tutta la zona mostrò per decenni le ferite causate dalla mano impetuosa dell'uomo.

LE CARBONAIE

Come abbiamo già sottolineato, il borgo di Nuditta venne disboscato soprattutto durante il periodo fascista, per la produzione del carbone. Le carbonaie, in gallurese chèi, erano composte dai tronchi tagliati e accatastati sino a creare un grande fuoco. Venivano poi ricoperte di frasche e, quando si appiccava fuoco, le carbonaie bruciavano lentamente per giorni e notti, producendo così il carbone necessario che poi veniva imbarcato insieme al legname, anche dalla marina di Ottiolu. Dopo qualche decennio “la corsa al carbone” terminò bruscamente e gli abitanti di Nuditta e delle zone limitrofe ritornarono a lavorare la terra e a badare al bestiame.

IL DESIDERIO PIÙ GRANDE: LA CHIESA

Nuditta è sempre stato un piccolo borgo, composto da quindici, massimo diciotto famiglie, tutte dedite al lavoro e con un desiderio comune: la costruzione della chiesa. Ma le limitate possibilità economiche del tempo hanno sempre rimandato il momento della costruzione, sino a quando, nel 1993, la popolazione si rimboccò le maniche dando l’avvio al tanto desiderato progetto. Tutti diedero una mano, in modo del tutto gratuito: un geometra si occupò del progetto, una famiglia regalò la statua della Madonna di Lourdes, la comunità intera raccolse un po' di denaro per avviare i lavori, e i muratori del borgo si misero subito al lavoro. Purtroppo però gli imprevisti non mancano mai, e gli abitanti di Nuditta videro più volte sfumare il loro sogno finché, dopo varie peripezie, finalmente la chiesa fu portata a termine e benedetta dal Mons. Pietro Meloni, il 12 gennaio del 2005.

Matta e peru

Il borgo di Matta e Peru dista 6,39 chilometri dal comune di Budoni, denominazione data da i primi abitanti del posto, dovuta alla presenza di innumerevoli alberi da pero, da cui "matta e peru"-ventre del pero. Il borgo nasce inizialmente come zona costiera adibita a insediamenti turistici, così come il vicino borgo di Baia Sant'Anna. Il borgo si estende da Punta La Batteria a Punta Orvili, ai tratti sabbiosi si alternano punte rocciose e scogliere di posidonia. Il fondale misto è di grande interesse per gli appassionati si snorkeling e immersioni. Il borgo, che si trova percorrendo la SS125 in direzione Posada-Torpé, è nato a ridosso di una rigogliosa pineta che separa il centro abitato e i villaggi turistici dalla spiaggia

Muriscuvò

Una delle particolarità dei borghi del comune di Budoni è che, nonostante siano separati solo da pochi chilometri, sono molto diversi tra loro soprattutto per quando riguarda usi, costumi e lingua. Trovandosi al confine tra la Gallura e le Baronie, Budoni e i suoi borghi hanno assorbito le influenze storico-culturali di entrambe le regioni.

I SARDI E I CORSI

borghi a nord di Budoni, verso San Teodoro, sono caratterizzati da usi, costumi e lingua gallurese, mentre quelli a sud di Budoni sono più vicini alla tradizione logudorese. Ancora oggi, parlando con gli anziani, si capisce quanto sia ancora molto forte questo dualismo. I galluresi venivano definiti cossesos, cioè corsi, avendo appunto origini e radici in Corsica. Avevano la fama di non essere bravi contadini e pastori, mentre la loro più grande abilità era il ballo. D'altro canto, i galluresi definivano i loro vicini “li saldi, chilli co li cambali”, i sardi, quelli con i gambali, a indicare una popolazione che invece è profondamente legata alla terra e al bestiame. La forza di Budoni è proprio questa: raccoglie borghi con lingua, usi e costumi diversi, ma uniti e coesi tra loro.

MURISCUVÒ, BORGO DI CONFINE LINGUISTICO E CULTURALE

Muriscuvò è uno dei borghi di Budoni più a sud, al confine con le Baronie: situato più vicino a Posada che ai borghi galluresi di Budoni. Qua si parla il Sardo Logudorese, anche se la maggior parte delle persone capiscono anche il gallurese: spesso, infatti, le famiglie erano - e lo sono tutt'ora - composte da un genitore di lingua gallurese e da uno di lingua logudorese. I bambini quindi, quando si incontravano a giocare nelle vie di Muriscuvò, si esprimevano in due lingue differenti. Anche i loro giochi erano diversi: i bambini galluresi giocavano con lu càrrulu di la fèrrula, il carretto costruito usando la biforcazione naturale della ferula, pianta che cresce spontanea in tutta la zona. I bambini “sardi” giocavano a sa dama, che consisteva nel disegnare a terra tanti rettangoli e lanciare un sassolino che doveva ricadere all'interno di essi. Le femminucce giocavano perlopiù con delle bamboline “caserecce”: un'asticella fungeva da corpo, un fazzoletto costituiva il vestitino della bambola e la testa era composta da uno straccio imbottito di crusca. Questa bambolina veniva chiamata in gallurese la puppìa, mentre in logudorese sas pipieddas. Anche il gioco della campana, che consisteva nel disegnare delle caselle numerate per terra su cui poi bisognava saltellare dentro, veniva chiamato in due modi differenti: sa lampada in logudorese e la pàmpana in gallurese.

Luddui

Da Ludduì si abbracciano tutti i borghi di Budoni con lo sguardo, e l’aria che si respira sa di vento fresco. In questo borgo che parla gallurese, il panorama regala emozioni che stordiscono. Il mare, i pascoli, le case colorate in lontananza, qualche pinneta sperduta dei pastori. Nei primi del ‘900 a Ludduì vivevano una decina di famiglie, tutte imparentate tra loro. Animavano la vita degli stazzi con una routine quotidiana fatta di sudore, fatica, ma anche di soddisfazioni.

LE CASE DELLE FAMIGLIE GALLURESI: GLI STAZZI

Lo stazzo, nato attorno al 1600-1700 circa, era l'abitazione delle famiglie galluresi: attorno a quest’area si svolgevano le mansioni che permettevano alle famiglie di sopravvivere. Col passare del tempo gli stazzi sono diventati i borghi così come li conosciamo ora, alcuni hanno mantenuto più o meno la stessa dimensione e altri si sono ampliati. Lo stazzo era una sorta di azienda agricola e pastorale a gestione familiare: la vita quotidiana si svolgeva attorno alla casa, un edificio in granito “monocellula”, cioè composto da una sola stanza. All'interno di questa stanza viveva una famiglia composta da madre, padre e figli che dividevano quindi l'unico spazio a disposizione. La stanza aveva un pavimento in argilla battuta, un letto, un tavolo - la banca – qualche sedia e sgabello – catrèi e banchìtti , una macina e il forno. Al centro della stanza c'era il focolore, lu fuchili , utilizzato per cucinare e per riscaldare l'ambiente durante l'inverno. Appesi al soffitto, formaggi, insaccati e i cagli. Attorno alla casa vi erano l'ovile, il porcile, la stalla, l'orto, la vigna e i campi che gli uomini quotidianamente lavoravano, per poter produrre il cibo per la propria famiglia.

UNA VERA E PROPRIA SOCIETÀ

La casa monocellulare veniva ingrandita quando uno dei figli si sposava: anziché costruire un'altra casa lontana, si preferiva allargare quella esistente. In questo modo lo stazzo diventava man mano sempre più grande e tendeva ad allargarsi in orizzontale, e molto più raramente in verticale. Man mano che la famiglia cresceva, si delineava quindi una vera e propria società che girava attorno al nucleo principale, cioè quello degli “anziani genitori” che hanno avviato la famiglia. Ogni elemento di questa società aveva un compito: gli uomini si occupavano dei campi e dei lavori più pesanti legati al bestiame; le donne andavano al fiume a lavare i panni, preparavano da mangiare, cucivano i vestiti e si occupavano di tutte le faccende domestiche legate alla famiglia. Anche i bambini davano il loro apporto: i maschietti custodivano gli animali, le femminucce prendevano l'acqua dalla fonte e badavano ai fratellini più piccoli mentre le madri erano impegnate nei lavori. Solo più tardi i bambini avrebbero imparato a leggere e a scrivere, grazie ai maestri “itineranti” che davano lezioni “a domicilio” in cambio di cibo e ospitalità per breve tempo. La vita negli stazzi era quindi legata ai cicli dei lavori che vi si svolgevano: il ciclo del grano, del latte, del vino, della carne. Questo ritmo portava le persone a fare una vita ritirata, scandita dalle ore lavorative. Non mancavano però momenti di socialità in cui le varie famiglie degli stazzi si incontravano: ogni famiglia aiutava l'altra nei lavori che richiedevano più braccia, come l'uccisione del maiale, la trebbiatura e la vendemmia. Tutti momenti di lavoro ma anche di incontro, che, in borghi come Ludduì, continuano ancora oggi.

DA NON PERDERE

Questo borgo è uno dei punti panoramici migliori di questa zona. Per vedere tutta la costa, Tavolara e Molara, attraversate il borgo e salite sino in cima.


Maiorca

Maiorca, la più estesa. Così in molti spiegano questo toponimo spagnoleggiante: anticamente, forse, Maiorca era il borgo più esteso della zona. Massimo Pittau, linguista, glottologo e docente all'Università degli Studi di Sassari, nel suo testo “Toponimi della Sardegna Settentrionale. Significato e origine”, ipotizza che Maiorca fosse il cognome del proprietario originario dello stazzo, e che quindi il nome sia rimasto a indicare tutta la zona.

PASSATEMPI DI UN TEMPO LONTANO

Anche se, probabilmente Maiorca era uno dei borghi più grandi della zona, non era facile trovare qualcosa per intrattenere i più giovani, quando questi non andavano a scuola. Allora i genitori e i nonni proponevano loro dei “giochi” che, in realtà, erano piccoli lavoretti, come andare negli stagni o nei boschi a raccogliere i frutti della natura. Così, d'estate, i bambini di sei/sette anni andavano a cercare le arselle con i rastrelli: queste erano considerate da tutti un piatto prelibato, cosa che inorgogliva non poco i giovani procacciatori. Durante l'autunno e l'inverno, invece, si andava a raccogliere mirto e pere selvatiche, soprattutto poco prima di Natale. Il mirto veniva utilizzato per il famoso liquore, mentre le pere selvatiche si mangiavano la notte della vigilia, prima di andare a messa. In realtà questo era un modo sia per tenere occupati i bambini, che altrimenti avrebbero rallentato il lavoro quotidiano dei genitori, sia un modo per alleggerire il lavoro dei più grandi: tutti, a Maiorca e negli stazzi galluresi, davano una mano affinché il cibo non mancasse mai... Bambini e bambine iniziavano a lavorare già dai sette anni: le femminucce aiutavano le madri e le sorelle più grandi nei lavori di casa, mentre i maschietti andavano nei campi.

IL MENÙ DELLE FESTE

La notte di Natale, insieme alle pere selvatiche, si mangiavano anche altri frutti della terra, spesso raccolti dai bambini stessi: fichi secchi, mandorle e nocciole. Si preparava anche s'aranzada, un dolce a base di buccia d'arancia, mandorle e miele. Mentre per il pranzo di Pasca di Natali, il giorno di Natale, il menù comprendeva quello che tutt'ora persiste in questa zona: zuppa gallurese, gnocchetti al sugo, agnello e salsiccia. Ancora non si faceva l'albero di Natale e non c'era l'usanza di fare regali ai bambini né tantomeno agli adulti, probabilmente anche a causa della difficile situazione economica. Però in ogni borgo, Maiorca compresa, si faceva un piccolo presepe che tutti potevano ammirare. Questa è una tradizione che rimane anche oggi: ogni anno, a dicembre, Budoni e i suoi borghi ospitano decine di presepi sparsi in tutte le vie. Durante le altre feste il menù era pressoché uguale, cambiavano solo i dolci tipici: a Pasca d'abbrili, Pasqua (di aprile), ad esempio, si preparavano e si fanno tutt'ora li casgiatini: dolci ripieni di formaggio o ricotta, a seconda dei gusti e anche della zona.

Lutturai

Lutturai dista circa quattro chilometri da Budoni. Il borgo ha conosciuto, come gli altri borghi del comune di Budoni, uno sviluppo turistico con la presenza di diverse case vacanza, tuttavia, conserva le sue caratteristiche di comunità agro-pastorale. Il territorio è caratterizzato perlopiù dalla presenza di case di campagna e agriturismi immersi nella vegetazione. Lutturai è situato in una posizione di favore per lo spostamento nelle località vicine principali: tale posizione era già conosciuta in tempi più antichi da chi, provenendo dai paesi montani, passava da quelle campagne per recarsi nei paesi costieri. 

Birgalavò

IL BORGO DEL MIRTO

Birgalavò, distante tre chilometri circa da Budoni centro, è un borgo tradizionalmente dedito all'agricoltura e alla pastorizia che dagli anni '70 in poi ha virato verso il turismo. Nel suo territorio sorge una piccola chiesa dedicata a Santa Rita da Cascia: “la santa degli impossibili” e dei miracoli irrealizzabili. Birgalavò è noto per la produzione del mirto, il delizioso liquore sardo che non manca mai dalle tavole, soprattutto in seguito ai pranzi importanti, grazie alle sue qualità digestive. Questo borgo in origine era uno stazzo abitato da poche famiglie, con dei saldi principi legati alle tradizioni. Una delle più sentite, qui come in tutta l’area gallurese e sarda in generale era ‘rituale’ che precedeva al fidanzamento di due giovani del luogo.

LU MANDATAGGHJU

Il fidanzamento e il matrimonio gallurese erano regolati da “leggi” particolari tramandati di generazione in generazione, il cui rispetto era di fondamentale importanza per la buona riuscita del matrimonio. Era sempre l'uomo, a chiedere la mano della donna, senza però potersi presentare di persona a casa della “corteggiata”. Si demandava quindi il compito a lu mandataggju, l'intermediario, che generalmente era un uomo speltu, pratico, cioè che conosceva la famiglia della ragazza. Questo si presentava generalmente dopo cena, quando fuori ormai era buio, per non destare sospetti nei vicini di casa. L'intermediario non faceva altro che chiacchierare del più e del meno con i genitori della ragazza, cercando di capire le loro intenzioni sul futuro della giovane. Se percepiva buone speranze di riuscita, allora si sbilanciava proponendo ai genitori il suo “protetto”, altrimenti lasciava perdere. In linea di massima, una volta che lu mandataggju scopriva le sue carte e confessava le intenzioni del giovane, i genitori della ragazza si prendevano dieci o quindici giorni di tempo per decidere. Durante questo lasso di tempo, essi procedevano con le ricerche: era importante capire di chi fosse figlio il futuro genero, che lavoro facesse e soprattutto quanti terreni possedesse. Solo dopo un'accurata ricerca e dopo essersi consultati con la ragazza corteggiata, i genitori prendevano una decisione in merito. Se il matrimonio era conveniente, spesso i genitori non si prendevano neanche la briga di consultare la giovane: decidevano per lei. Per i padri galluresi, però, una cosa era importante: che gli uomini della famiglia a cui apparteneva il giovane non fossero maneschi.

PALTI DI L'OMU E PALTI DI LA FEMINA

Per avere informazioni sul giovane, il primo passo dei genitori della donna era la consultazione familiare. Infatti si usava comunicare ai parenti più stretti la notizia del possibile coiu, matrimonio, e soprattutto si chiedeva consiglio ai più anziani. Se loro avessero espresso un parere negativo, il matrimonio sarebbe stato a rischio: il parere degli anziani era quasi legge. Una volta prese tutte le informazioni, i genitori della ragazza comunicavano al giovane la risposta, invitandolo a casa con sua famiglia per la conoscenza ufficiale dei fidanzati e di li palti di l'omu e palti di la femina, della famiglia dell'uomo e della famiglia della donna. Questo era il fidanzamento, detto anche abbracciu, perché i due giovani durante questa occasione si abbracciavano per la prima volta. In questa occasione l'uomo donava alla donna l'anello di fidanzamento e subito dopo si aprivano i festeggiamenti insieme ai parenti e agli amici.

Limpiddu

A Limpiddu c’erano poche famiglie, ma ognuna di esse era composta da molti figli, quindi si trattava di un borgo abbastanza giovane e movimentato.

IL CARNEVALE OFFERTO DALLA NATURA

I nostri nonni ricordano con divertimento le feste private, soprattutto quelle che si facevano nel periodo di Carnevale. Si andava in campagna alla ricerca di un tubero simile alla patata, sul quale si incidevano gli occhi, la bocca e le orecchie e si rivestiva di panni come se fosse un neonato. Una volta pronta, accompagnata da un padrino e una madrina, la bambola vegetale sfilava nel corteo di Carnevale come una battezzanda qualunque. Era la campagna, sempre rigogliosa nei borghi di Budoni, a offrire la materia prima per i travestimenti: alcuni anziani ricordano addirittura che i loro stessi nonni raccoglievano il pungitopo, e con l’ago infilavano le sue piccole e lucenti bacche rosse in un filo, come se fossero perline, per ottenere delle colorate collane da indossare per “mascherarsi”. I giovani si riunivano nei bar, a quell’epoca solo due, uno a Limpiddu e uno a Budoni. Insieme ai ragazzi e alle ragazze di Sas Murtas, andavano nell’unico locale del paese e tiravano fuori da uno stanzone un letto, trasformando lo spazio in sala da ballo. Alla fine della festa il letto veniva riposto all’interno della stanza che, da balera, diventava di nuovo camera da letto. I festeggiamenti per il Carnevale iniziavano di pomeriggio per concludersi a notte fonda. Tutto questo accadeva prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, quando gli uomini finalmente tornarono dal fronte.

LA GIOVENTÙ AL FRONTE

I ragazzi dai diciotto anni in poi, prima della guerra, subirono l’addestramento militare al centro di Budoni, dove ora si trova il vecchio comune, in piazza Einaudi. In un piccolo edificio, un anziano militare preparava i giovani al servizio di leva. L’addestramento era obbligatorio e avveniva a partire dalle quattro del pomeriggio in poi. Le nostre nonne ricordano ancora quell’incessante rumore di passi lungo via Nazionale e i richiami dell’addestratore nei confronti dei loro fratelli o amici. I giovani budonesi che prendevano parte all’addestramento erano tanti e disegnavano un corteo composto lungo tutta via Nazionale, passando davanti alla casa cantoniera per poi girare verso il mulino. Budoni finiva lì, a quei tempi.

LA COMUNITÀ ABBRACCIA I SOPRAVVISSUTI

Alla fine della guerra le famiglie restavano in attesa di notizie dei loro cari partiti come militari, e l’attesa era ancora più lunga e angosciante al pensiero che molti di loro furono imprigionati, chi in Francia e chi in Albania. I nonni ci raccontano che qualche settimana dopo la guerra, quando non c’erano navi per far tornare i giovani soldati nelle proprie case, a Budoni si sparse la voce che dopo aver attraversato su una barca il mar Mediterraneo, era tornato in terra sarda un giovane militare budonese. Le donne che si trovavano nel ruscello di Limpiddeddu per sciacquare i panni, lasciarono tutto e rientrarono di corsa a casa. Tutto il borgo di Limpiddu si riunì in corteo e iniziò a marciare verso la strada di Solità. La comunità visse la grande gioia di poter riabbracciare dopo una guerra e un lungo viaggio per mare, uno dei suoi figli più giovani sopravvissuto al conflitto.


Luttuni

Come la maggior parte dei borghi di Budoni, anche Luttuni ha una tradizione agropastorale predominante. Tra i lavoratori era possibile stipulare dei contratti agricoli, poiché non tutti avevano la fortuna di possedere un terreno da lavorare: una buona parte degli uomini, quindi, andava a lavorare presso dei proprietari terrieri.

I RAPPORTI DI LAVORO TRA CONTADINO E "SIGNORE"

Nel caso del contadino, chiamato su teraccu pedaiu, aveva diritto a vitto, alloggio, scarpe e un quarto del grano al momento del raccolto. Non era un semplice lavoratore, ma veniva trattato come un fizu de domo, uno di casa. Un altro tipo di contatto tra contadino e proprietario terriero era la mezzadria: il "signore" offriva la terra, i semi e i buoi, mentre il contadino metteva il suo lavoro. Anche sul contadino, però, gravavano dei doveri che, secondo la consuetudine del tempo, dovevano essere rispettati. Il costo delle riparazioni degli strumenti di lavoro, ad esempio, gravavano metà sul contadino e metà sul proprietario della terra. Mentre l'obbligo di ripulire i terreni dai rovi ricadeva su chi possedeva il bestiame, che nella maggior parte dei casi era "il signore".

I CONTRATTI TRA PASTORE E PROPRIETARIO TERRIERO

Nel caso del pastore, invece, il contratto era detto su tres unu: il proprietario delle pecore forniva il bestiame ed era obbligato ad avere - o affittare - un pezzo di terreno che fornisse almeno la metà del pascolo necessario per gli animali. L'altra metà del pascolo la forniva il pastore, che prendeva un terzo dei frutti del lavoro; mentre gli altri due terzi spettavano al proprietario del gregge. Questo tipo di contratto durava cinque anni, e scaduto questo periodo il pastore aveva l'obbligo di procurarsi i terreni per il pascolo delle greggi. In questo caso, i frutti erano divisi a metà tra il pastore e il proprietario degli animali.

GLI STRUMENTI DELL'AGRICOLTURA

Il lavoro era particolarmente faticoso e non conosceva soste, se non quelle dettate dalle stagioni o, talvolta, dalle intemperie. Per lavorare la terra venivano utilizzati due aratri differenti: s'aradu saldu e s'aradu a laccu. Il primo, il tipico aratro sardo, corrispondeva al tipo logudorese e veniva utilizzato in particolare nella zona di Ozieri, mentre il secondo è il tipico aratro utilizzato nella Sardegna settentrionale, descritto da Maurice Le Lannou nel libro Pastori e contadini di Sardegna (1941). L’aratro era lo strumento principe delle campagne, tanto da divenire il simbolo della fatica dell’uomo - e dell’animale -, ricordato anche da Francesco Ignazio Mannu, nell’inno della Sardegna Su patriottu sardu a sos feudatarios (letteralmente Il patriota sardo ai feudatari), meglio conosciuto come Procurade 'e moderare, composto nel 1794 durante i moti rivoluzionari sardi. Il testo di Mannu riporta un riferimento preciso alla fatica del contadino contrapposta alla vita ricca e facile del cane del Barone: Con la zappa e con l’aratro lotta tutto il giorno, verso mezzogiorno si ciba solo di pane, viene trattato meglio il cane del Barone, in città, se è di quella razza che solitamente portano in tasca.

Tamarispa

DAL BORGO ANTICO ALLA TAMARISPA DI OGGI

Le notizie più antiche relative al borgo di Tamarispa ci arrivano attraverso il Liber Fondachi, registro in cui venivano annotate le entrate fiscali dei possedimenti dei pisani in Sardegna. Secondo questa testimonianza, dal 1317 al 1319 Tamarispa ospitava non più di quattro famiglie, cioè circa venti abitanti. Questi pagavano, ogni anno, due lire di imposta fondiaria più quattro “carre” di grano e sette di orzo. Secondo il Liber Fondachi, Tamarispa nel medioevo era posta nella parte settentrionale della Gallura inferiore, precisamente in un “luogo elevato”, sui fianchi o in cima a un rilievo. Dal medioevo in poi, però, non abbiamo più notizie di Tamarispa: Gian Francesco Fara, nel testo Chorographia del XVI secolo, la indica come estinta. Tra la seconda metà del XVIII secolo e la prima del XIX, la fascia costiera e subcostiera tra Olbia e Posada inizia pian piano a ripopolarsi e tra i piccoli centri che si formarono ci fu, in seguito, anche Tamarispa. Il sito era diverso da quello che accoglieva l'agglomerato medievale: coloro che iniziarono a costruire non vi trovarono né ruderi di un abitato precedente né edifici sacri. La chiesa di Tamarispa, infatti, è stata costruita di recente, circa venticinque anni fa. Inoltre la Tamarispa medievale, come si può leggere nel Liber Fondachi, era posta in un luogo elevato, mentre l'odierno borgo è situato in basso, non lontano dal Riu Mannu che gli anziani del paese chiamano “Su riu de Tamarispa”.

TAMARISPA NEL '900: USI E COSTUMI

Quanto è cambiata Tamarispa da ieri a oggi? Nei primi anni del '900 c'erano poche case, due o forse tre: piccole, con un'unica stanza che fungeva da cucina e camera da letto. Allora non c'erano ancora la luce, la televisione o l'acqua calda, ma solo un tetto, quattro mura, un caminetto e tante bocche da sfamare. E nel periodo in cui si raccoglieva il grano, il posto a disposizione diminuiva enormemente: i sacchi venivano infatti sistemati nell'unica stanza della casa, uno sopra l'altro. I bambini allora, non avendo più posto per dormire, dormivano sopra le riserve di grano. A Tamarispa si viveva di agricoltura e pastorizia: alcuni avevano terreni e bestiame proprio, altri lavoravano per i “signori” e il lavoro veniva retribuito con un chilo di lardo, un bene prezioso per l'economia domestica. Le donne oltre a cucinarlo, lo utilizzavano per fare l'olio e il sapone. Sapone che naturalmente non profumava di lavanda come quello odierno, ma era utile per il bucato che le donne di Tamarispa andavano a lavare a “Su riu de Tamarispa”. I vestiti - maglioni, pantaloni e calze - venivano cuciti a mano con la lana ottenuta dalle pecore. La Santa patrona del borgo di Tamarispa è Santa Maria Gabriella.

Berruiles

Da Budoni si percorre la SS125 in direzione Nord, verso San Teodoro. Il borgo si trova appunto lungo la statale, nascosto ad ovest della collina di Punta Ultia, e insieme alle micro-frazioni di San Silvestro, Nuditta e Maiorca forma un agglomerato di origine medioevale. Questi piccoli siti formano l'aureola al comune di Budoni, che è il baricentro di tutti i 24 borghi. Il toponimo di Berruiles potrebbe significare "luogo nascosto o protetto", dove si potevano allevare armenti. La presenza di macine romane attesta che il luogo è stato abitato fin dall'antichità.

LA CHIESA DI SANT’ANNA

La chiesa, edificata negli anni ’30, si trova in cima al borgo di Berruiles (Berruili in gallurese). L’interno è stato abbellito con decorazioni floreali realizzate nel 1931 dal pittore F. Deledda, durante un concorso di capimastro. I decori sono stati recentemente restaurati: si tratta di delicati motivi floreali e piccoli angeli che ne abbelliscono l’interno semplice e decoroso. I recenti interventi hanno modificato alcune parti come il pavimento d’epoca, oggi non più visibile. È intenzione della comunità ripristinare anche gli infissi lignei, che un tempo caratterizzavano la struttura. La chiesa fu costruita su un terreno frutto di una donazione, così come la statua della santa, protettrice delle madri e delle partorienti. Il borgo di Berruiles segna il confine nord del comune di Budoni. La comunità è di origine gallurese, così come il dialetto parlato dai residenti.

Solità

IL BORGO MISTERIOSO

Il nome di questo borgo non può che ricordare il sole. Se si osserva il suo territorio, completamente esposto alla luce solare, si può supporre che il nome derivi proprio da esso. Secondo alcuni è possibile che gli abitanti di questa zona adorassero il sole e che i resti sulla collina siano legati a un tempio utilizzato per questo culto. Non abbiamo notizie certe sui riti e i culti praticati a Solità, però abbiamo sicuramente molti resti archeologici che fanno pensare a un insediamento molto antico. Sono presenti, infatti, i resti di un nuraghe - costruzione tipica sarda in pietra, di forma tronco conica - e di Domus de Janas “case delle fate” - strutture sepolcrali composte da tombe scavate nella roccia -. Nella seconda metà del '900, durante gli scavi per la costruzione della strada che collega il borgo di Solità a San Gavino, sono stati rinvenuti i resti di un antico cimitero, mentre si narra dell'esistenza di una lunga galleria che da Solità arriva sino a Tanaunella.

DALLA STORIA ALLA LEGGENDA

A Solità non sono magici solo i luoghi, ma anche le leggende tramandate oralmente dagli abitanti di questo borgo. Una di queste è quella di Maria Lentola, una donna che dimorava nelle rocce e indossava un lungo lenzuolo bianco (da qui il nome lentola, che in sardo significa lenzuolo). Secondo la leggenda, Maria Lentola girava per le stradine di Solità nel pomeriggio, per catturare i bambini disobbedienti che anziché rimanere a casa durante le ore più calde, uscivano, noncuranti delle raccomandazioni dei genitori. Questa storia veniva utilizzata dagli adulti per impaurire i più piccoli, con l'obiettivo di tenerli a casa nel pomeriggio. Maria Lentola è una figura conosciuta non solo in questa zona, ma anche nel resto della Sardegna, con nomi diversi come sa mama 'e su sole, la mamma di lu soli ecc. Tra le altre leggende di Solità troviamo la figura di su Mascazzu, un simpatico omino che appariva sempre nello stesso luogo e amava fare i dispetti a chi passava di là, soprattutto ai bambini. Infine, Sa reula, cioè le anime dei morti che passeggiano per il paese: si narra che nella notte di Ferragosto le anime passeggiassero per il paese in cerca di cibo. Quella notte, quindi, gli abitanti del borgo lasciavano sui balconi un piatto di maccarrones de punzu, ovvero di gnocchetti sardi, per accontentare le anime dei propri cari.


Tanaunella

IL BORGO DEL GIGANTE UNELLA

La leggenda narra che Tanaunella fosse la tana del gigante “Unella”, che si impossessò del borgo a discapito dei pastori e dei briganti che lo abitavano. Da qui deriverebbe il nome “Tanaunella” anche se, a quanto pare, Tanaunella ha avuto altri nomi, come Firònica e Tanubia. Se sull'origine del nome ci sono ancora delle incertezze, sappiamo per certo che il borgo fu fondato dai romani. Sino a una settantina di anni fa, infatti, erano evidenti i segni lasciati dalle mura romane e dai resti di una chiesa dissestata, sia in zona Pera che in zona Sant'Anna (verso il mare). Il borgo di Tanaunella è sempre stato ricordato come uno dei centri più grossi della Sardegna, sito in una posizione strategica perché approdo di navi fenicie, turche e cartaginesi. Infatti qui erano presenti due porti naturali: Porto Ainu e Porto Sant'Anna. Queste popolazioni arrivavano dal mare e portavano utensili di terracotta e oggetti preziosi, e in cambio prendevano lana, formaggio, grano e lino lavorato. Spesso, però, le popolazioni che approdavano attraverso i due porti naturali non erano portatori di beni, bensì di morte e distruzione. Pare infatti che a causa delle battaglie con i popoli conquistatori - uniti ai violenti nubifragi che spesso colpivano il borgo marittimo - questo sia stato completamente abbandonato dai suoi abitanti e che si sia gradualmente estinto. A testimonianza dell'antica datazione del borgo, abbiamo il ritrovamento di un grande cimitero a Porto Ainu e il rinvenimento, sempre in loco, di una tomba contenente delle ossa: secondo la Sovrintendenza per le Antichità di Sassari, queste risalirebbero all'era ipogeica.

LE FESTE IN ONORE DEI SANTI PROTETTORI

Il Santo Patrono di Tanaunella è San Sebastiano, festeggiato il 18, 19, e 20 agosto. La festa inizia nella chiesa del borgo dove viene celebrata la messa in onore del Santo che, successivamente, viene portato in processione per le vie del paese, accompagnato dai fedeli, dai gruppi folk tradizionali e dai cavalieri. La sera invece ci si ritrova in piazza Garibaldi dove i giovani e i più anziani si esibiscono, al suono dell'organetto, in balli tradizionali galluresi. Un'altra festa particolarmente importante per Tanaunella, è quella in onore di Sant'Antonio Abate de su fogu, festeggiata il 16 gennaio, che attira anche abitanti degli altri borghi. Gli organizzatori sono riuniti in comitato e aiutati da tre gruppi: i giovani, i cacciatori e il gruppo Crisalide. Uno di questi, eletto dal comitato, ha l'impegno di raccogliere le piante di cisto - su madregu - poi utilizzate per accendere i fuochi. Una volta raccolto, il cisto viene portato sulla piazza della chiesa e accatastato a forma di piramide: sulla cima vengono poste delle arance a forma di croce e, all'ora stabilita, il fuoco viene acceso. A questo punto inizia la festa vera e propria: si preparano le tavolate per i commensali mentre gli organizzatori cucinano i piatti tipici del borgo e della zona, come spiedini di carne de pulcheddu e de anzoneddu e, poco prima della cena, vengono distribuite sas cuzzuleddasa di Sant'Antonio de su fogu, dolci preparati dalle donne del paese, benedetti dal sacerdote durante la messa.

DA NON PERDERE

Sicuramente il centro storico, con le viuzze a chiocciola che si arrampicano verso l'alto, e la chiesa che sorge dove prima vi era un nuraghe.

Strugas

IL BORGO DELL'ACQUA

Secondo alcuni studiosi il toponimo Strugas indicherebbe un luogo ricco di fonti, quindi di acqua da bere. Un nome importante e significativo, soprattutto se consideriamo che anticamente l'approvvigionamento di acqua potabile era, per mancanza di mezzi di trasporto, un'operazione lunga e faticosa. È quindi probabile che il nome sia un omaggio a un luogo ricco di questo bene tanto prezioso. Il borgo di Strugas sorge in una zona protetta da due colline, nascosta da una fitta vegetazione e al riparo dal forte maestrale che spesso colpisce l'isola. La sua altezza sopra il livello del mare fa sì che, dalla parte più alta, si possa godere di un panorama che abbraccia tutta la costa, da Porto Ottiolu a Porto Ainu.

UN LUOGO DI PASSAGGIO

Strugas è il borgo del comune di Budoni più a ovest, ma nonostante la lontananza dal mare, è sempre stato un luogo di passaggio. Infatti, prima della costruzione della strada statale che congiunge Olbia al resto della zona, questa era l'unica via praticabile. Per arrivare a Terranova, l'antica Olbia, era quindi necessario superare il fiume di Straula - Budditogliu e attraversare Strugas. Chi passava spesso da questa strada, con il carro o con le primissime auto, ricorda ancora le colline di querce e macchia mediterranea che sovrastano Strugas, proseguo di Monte Nieddu, anch'esso ricoperto di ricche foreste. Così capitava spesso che gli abitanti di Strugas offrissero un pasto caldo, un rifugio per la notte o una borraccia di acqua fresca a chi attraversava anche solo fugacemente il loro borgo.

SPIRITO SOLIDALE E COOPERAZIONE

Trattandosi di un luogo di passaggio, a Strugas non mancava lo spirito di solidarietà sia verso l'estraneo che verso la propria comunità. Le famiglie presenti erano - e sono tutt'ora – poche, e tutto ruotava attorno al lavoro della famiglia e al sostegno di quelle vicine. Per famiglia si intende, prima di tutto, la classica composizione genitori-figli. Quando i figli diventavano adulti andavano a formare una propria famiglia, ma spesso non si allontanavano troppo dal nucleo primario, dando origine a una famiglia allargata, con elementi che cooperavano tra loro. Questo accadeva soprattutto nel periodo in cui si viveva negli stazzi: le case si ampliavano insieme alle famiglie e ogni componente di esse aveva un preciso ruolo sociale ed economico. La solidarietà era forte di fronte a tutti i problemi della vita quotidiana, ma anche di fronte alla morte: in questo caso la comunità si riuniva per sostenere le persone colpite dal lutto. I componenti delle altre famiglie si occupavano di organizzare il funerale, chiamare il sacerdote di Budoni o Posada, intrattenere i componenti più giovani della famiglia del defunto e preparare i pasti per tutti. Il sostegno comprendeva anche s'attittu, il pianto “tradizionale” durante il quale si cantavano le lodi del morto.

San gavino

TRA SANTI E POETI

San Gavino è un piccolo borgo che non ha mai avuto più di cento abitanti. Deve il suo nome a un soldato romano con l'ingrato compito di perseguitare i cristiani, secondo gli ordini dell'imperatore Diocleziano. Gavino, però, liberò i prigionieri e per questo fu giustiziato e in seguito proclamato santo. Il borgo omonimo rende omaggio al Santo perché si narra che tra i resti di un'antica chiesa del territorio, furono ritrovate tracce di un suo passaggio. Nel 1981 gli abitanti di San Gavino costruirono una cappella per ospitare una statua del santo, che fu scelto come patrono e festeggiato ogni 25 ottobre.

STORIE E LEGGENDE DAL BORGO

Erano tante le leggende che davanti al focolare, su foghile, si raccontavano ai bambini. Una di queste aveva come protagonista sa pana, una donna morta di parto che durante la notte si recava a sa funtanedda, un ruscello situato tra il borgo di San Gavino e quello di Solità, per lavare i panni. Lo scopo di questi racconti era quello di spaventare i bambini, per evitare che si allontanassero troppo da casa o che frequentassero luoghi pericolosi, come i monti o i corsi d'acqua. Ma a San Gavino non si raccontavano solo storie: le serate, infatti, si trascorrevano in rima, grazie ai numerosi poeti che vivevano nel borgo e lo animavano a suon di poesia. Non è chiara l'origine di questa tradizione poetica, ma pare che un certo Cosimo Oggianu, partito militare a vent'anni e mai rientrato a casa, abbia dato il la componendo una poesia dedicata alle donne di San Gavino. Ancora oggi, tra le stradine di questo borgo, uomini di ogni età recitano poesie per celebrare amori, ricordi e e traguardi. In passato a San Gavino erano tutti pastori, e ogni famiglia aveva qualche pecora, un paio di capre, e maiali. Tutti avevano il carro, che veniva utilizzato per lavorare e per portare i bambini al mare la domenica mattina. Durante l'inverno, invece, spesso il carro veniva utilizzato per accompagnare i bambini a scuola: nei primi anni del '900, infatti, la scuola più vicina si trovava a Solità. Le lezioni si svolgevano in un pagliaio dismesso, con una maestra che spesso faceva diversi chilometri per arrivare al borgo. Alla maestra si assegnava un alloggio presso una famiglia del borgo che aveva una stanza in più. I nostri nonni ricordano ancora un episodio che dipinge bene l'accoglienza tipica del luogo: una notte, durante un temporale, arrivò un nuovo maestro. Era di Torino, ed era stato assegnato alla scuola di Solità. Fu ospitato da una famiglia abbiente di San Gavino, ma era talmente alto che per qualche giorno fu costretto a dormire con i piedi fuori dal letto. Gli uomini del paese si prodigarono per costruire al maestro “troppo alto” un nuovo letto più lungo, mentre le donne si impegnarono a confezionargli dei pantaloni su misura.

DA NON PERDERE

La piazza dedicata ai poeti del borgo e la chiesetta che accoglie il santo.

Ottiolu

Si dice che il nome di Porto Ottiolu derivi dal sardo “Portiolu”, anche se recenti studi del linguista Massimo Pittau, hanno riaperto la discussione. Potrebbe infatti essere la forma diminutiva di gùttiu, gùttia, (g)utzu, gùtziu e (b)ùttiu, ossia “goccio, goccia”, con riferimento a una fontana presente a Ottiolu, caratterizzata da un semplice ma continuo gocciolio d'acqua. Attualmente Porto Ottiolu è un borgo che ospita ogni estate migliaia di turisti, attirati da una lunga spiaggia puntellata di calette nascoste, e supportato da servizi efficienti e moderni. Ma Ottiolu non è sempre stato così: sino al 1985, dove oggi sorge il porto, c'era esclusivamente un capiente stagno che faceva parte del sistema di zone umide che riguarda tutto il territorio. Le prime famiglie ad arrivare a Ottiolu furono, negli anni '60, i Buzzi e i Sergenti: non avevano a disposizione strade, case né energia elettrica, ma solo lo stagno, il mare, la spiaggia e la natura. E la compagnia di alcune famiglie dei borghi vicini che, durante l'estate, si trasferivano nei pressi dello stagno, presso abitazioni di fortuna. Tutto cambiò dal 1985 quando, durante un volo turistico in compagnia di amici, l'ingegnere romano Vitali si innamorò di Ottiolu e decise con la sua società “Intermarine”, di costruire due villaggi e il porto. Da questo momento in poi, Porto Ottiolu assunse un'altra veste: lo stagno lasciò il posto al porto turistico, un moderno approdo che può ospitare ben 405 imbarcazioni con tutti i servizi in banchina, un cantiere nautico attrezzato, un diving center per le immersioni guidate, una scuola sub e un circolo velistico.

QUATTRO PASSI A PORTO OTTIOLU

Il piccolo porticciolo dista circa 3 km dal centro di Budoni. Si presume essere stato utilizzato anche in epoca romana come approdo nelle loro rotte sarde. Oggi lungo i porticati che costeggiano il porto è possibile degustare un buon gelato artigianale, conoscere i prodotti tipici sardi e l’’artigianato locale, fare visita alle boutique dedicate allo shopping per adulti e bambini e tanto altro ancora...La passeggiata si può concludere con un suggestivo aperitivo accompagnato dalle luci del tramonto che regalano uno scenario magico.

COSA FARE

Durante il giorno potete prendere una barca a vela dal porto di Ottiolu e fare una gita nell'area marina protetta di Tavolara Capo Coda Cavallo oppure fare un'escursione alla ricerca di Poltu Cuatu (porto nascosto) e di Cala di li Francesi. La sera, invece, vi consigliamo una passeggiata nella piazzetta principale, dove, in estate, troverete un'ampia offerta di locali, ristoranti, pizzerie, bar, gelaterie, boutique per lo shopping, bancarelle e spettacoli serali per adulti e bambini.

IL PORTO ANTICO

In realtà il porto, a Ottiolu, è sempre stato presente: già i fenici, i punici e poi i romani avevano individuato questa costa come approdo nelle loro rotte verso la Sardegna. Probabilmente alcune baie riparate come quella di Ottiolu, comprese le piccole insenature di Cala di li Francesi e Poltu Cuatu, venivano utilizzate come scali da navi quadrireme puniche e/o fenice. D'altronde non è raro trovare resti di ceramiche riconducibili a navi di trasporto anche romane, probabilmente naufragate lungo i litorali. É proprio dell'età romana che si hanno più notizie: grazie al cosiddetto “Itinerarium provinciarum Antonini Augusti” sappiamo che i romani costruirono in Sardegna, anche nella zona di Ottiolu, una fitta ed efficiente rete stradale per collegare le zone da essi conquistate. Inoltre sappiamo per certo che i pirati barbareschi e i mori sbarcavano su queste coste, ed è probabile che il toponimo Punta Li Tulchi, una delle cale utilizzate per gli scali, ricordi in qualche modo questi spiacevoli episodi.


San silvestro

San Silvestro è situato a circa trecento metri a sud di Berruiles e a due chilometri e mezzo dal centro di Budoni. Il borgo porta il nome di un grande Papa: San Silvestro è stato al centro di uno dei periodi più entusiasmanti, dato che sotto il suo pontificato la Roma pagana lasciò il posto a quella cristiana portando con sé molti usi e pratiche. Uno dei documenti più leggendari della storia di Silvestro I, il cui pontificato durò ben 21 anni, è costituito dagli Actus Silvestri. 

«31 dicembre - San Silvestro I, Papa, che per molti anni resse con saggezza la Chiesa, nel tempo in cui l'imperatore Costantino costruì le venerande basiliche e il Concilio di Nicea acclamò Cristo Figlio di Dio. In questo giorno il suo corpo fu deposto a Roma nel cimitero di Priscilla.»

S'iscala

S'Iscala è un borgo collinare situato nella parte meridionale del territorio comunale ed è uno dei 24 borghi che fanno da aureola al comune di Budoni, dista da esso 3 km circa e 2,5 km circa dalla costa dalle spiagge di Sant'Anna e di Sa Capannizza. Esso ha conosciuto di recente un notevole sviluppo turistico grazie alla sua posizione strategica per raggiungere in breve tempo le spiagge più belle della zona e perché collocato a ridosso della strada veloce SS131 DCN.

Sono presenti (ma non ancora fruibili al pubblico), nei pressi di S’Iscala, i siti archeologici del nuraghe Abbaia, e un villaggio neolitico, collocato a media distanza, in linea d'aria, tra il borgo e quello di Matta e Peru.

Il centro abitato si compone soprattutto di appartamenti in affitto circondati da ulivi e olivastri: si tratta di un luogo tranquillo, ideale per trascorrere momenti di solitudine e silenzio, lontani dalla frenesia delle località turistiche più frequentate, specie in alta stagione. L’area è perfetta per dedicarsi alle passeggiate a cavallo o alle corse in mountain-bike.

Agrustos

Agrustos è una piccola frazione di Budoni, oggi rinomata località turistica e mia seconda casa.


I ROMANI LO CHIAMAVANO AUGUSTUS POPULUS: nel suo territorio in epoca romana sorgeva uno scalo chiamato Augustus Populus.


Nella “Carta dell’Isola e Regno di Sardegna” (1845) di Alberto Ferrero Della Marmora (Antico Catasto 1840/1859), vi sono delle mappe riferite all’attuale Comune di Budoni, appartenente allora ai Salti di Posada: in esse sono rilevati i terreni privati recintati e gli stazzi della frazione di Agrustos che allora comprendeva sei case.


 Nei primi decenni del secolo scorso vivevano una ventina di famiglie per lo più imparentate tra loro, dedite alla pastorizia e all’agricoltura o ad altre attività nel litorale marino.


L’insediamento rurale, tipico della zona è lo stazzo, una cellula abitativa unifamiliare, autosufficiente che offriva rifugio per pastori e pecore, creata in origine dai pastori, molti dei quali, tra il Sei e il Settecento, provenienti dalla Corsica.


Il termine stazzo, lu stazzu,deriva dal latino statio (stazione, luogo di sosta), un insediamento rurale umano detto ad abitat disperso.


È stato ereditato dalla Corsica: alcune famiglie corse, per motivi politici interni, faide e altro si trasferirono nella zona settentrionale della Sardegna, in Gallura, allora piuttosto disabitata e poco accessibile e ospitale. Qui costruirono le loro case, simili a quelle possedute in patria ma con il granito gallurese, pietra tipica locale. Diffusero così, tra i sardi, il loro dialetto: il gallurese, infatti, è una variante della lingua corsa, molto simile a un dialetto parlato nei pressi di Sartene in Corsica. Nacquero così piccoli nuclei familiari, diffusi nel vasto territorio.


Lo stazzo è sempre compreso entro un recinto, denominato pastrucciale, ha una pianta di forma rettangolare, costituita da muri, con spessore di circa 80 cm, costruiti con quadri di granito, faccia a vista, sagomati in parallelepipedi lunghi 50 cm e alti 25 cm, stuccati con argilla (solo dopo la ristrutturazione le pareti interne furono imbiancate), col pavimento in terra battuta. Tutte le aperture di legno di quercia o di ginepro, si affacciano sui lati più lunghi della casa. La porta principale, rialzata dal suolo per mezzo di una soglia di granito monolitico, è a due battenti con quattro pannelli, dei quali uno è mobile in modo da poter essere usato come finestra. Il tetto, spesso a due spioventi e asimmetrico, è costituito da una serie di tegole non cementate, rifinito all'interno con le canne di fiume.


Lo stazzo monocellulare è costituito da la casa manna: un unico ambiente rettangolare, privo di finestre, con due porte, poste una di fronte all’altra, per aerare il locale che fungeva da cucina, ambiente di lavoro e camera da letto. Al centro vi era lu fuchìli (il focolare) delimitato da pietre fitte in circolo, anche detto ziddha a meza casa: essendo sprovvisto di camino, il fumo fuoriusciva dal tetto, attraverso canne e travicelli nudi e radi (nel secolo scorso il camino fu addossato alla parete).


Era arredato soltanto con la banca (il tavolo), la cagghjna e l'uppu (un mastello di legno, o una conca in terracotta, per l’acqua con la nappa e un lungo mestolo in sughero), lu bancu (una panca rettangolare, molto rudimentale, una specie di triclinio romano), le catrèi (le sedie), li banchìtti(gli sgabelli), la cridenza (credenza), lu balastragghju(un ampio armadio per i contenitori per l’acqua), la piattèra e la misìglia per i piatti di uso quotidiano e la scigliàra per i servizi “buoni” da utilizzare nei ciurràti nòtiti, nei giorni di festa o in particolari ricorrenze, l'incanicciatu (un graticcio) per conservare il formaggio, gli insaccati e i cagli, la festina (un fusto di vecchio ginepro, i cui rami servivano per appendere), la lùscia (un alto contenitore cilindrico fatto di stecche di canne intrecciate, utilizzato per conservare il grano o i legumi, con una piccola apertura nella parte inferiore), una macina e diverse stuoie.


Più tardi, molti stazzi furono ampliati, inserendo altri ambienti per giustapposizione laterale, divenendo così bicellulari. Comprendevano anche l'appusentu o la cambara (la camera da letto) e lu pinnenti (il magazzino). Nell’appusentuvi era il letto, l’armadio e l’immancabile cassapanca di legno di noce o di castagno, la cascia, dove era conservato il corredo della sposa. Ampliato con un secondo piano, era detto lu palazzu.


Sempre nel recinto vi era il cortile, dove spesso si ergeva un leccio per proteggere la casa dalle intemperie e dal sole, il pozzo, lu furru (il forno), la saurra (il porcile di forma ellissoidica o rettangolare), lu puddagghju (il pollaio), lu salconi (il recinto per il bestiame caprino) e varie arnie. All’esterno, vi erano le tanche (terreni impiegati a rotazione per l’agricoltura e la pastorizia), vigneti, orti e frutteti, boschi di sughere, lecci e olivastri, pascoli per bestiame allo stato brado (bovini, ovini e caprini).


Un insieme di stazzi formava un distretto pastorale, la cussogghja (la cussorgia), un'entità geografica e sociale unita da vincoli ancestrali di amicizia e profonda collaborazione.


Nella maggior parte delle cussorge gli stazzi sono isolati, in altre riuniti in vario numero come ad Agrustos: il più conosciuto era lo “Stazzo Meloni”.


Rosanna Pisanu

San lorenzo

UN BORGO IN FESTA

In passato i santi che si festeggiavano in questo borgo erano tre: San Simone il 28 aprile, Santa Lucia il 15 maggio e San Lorenzo sempre a maggio, la più grossa. Ora, invece, la festa di San Lorenzo si festeggia ad agosto. Il comitato che organizzava le feste era composto da persone che abitavano i borghi di Budoni come San Lorenzo, Tamarispa, San Gavino e Solità anche se alcuni abitanti delle frazioni di Torpè, come Concas, Su Cossu e Talavà, davano una mano. Il comitato della festa di San Lorenzo non chiedeva soldi, come si usava fare invece in molti borghi vicini, ma chiedeva direttamente i generi alimentari che poi venivano consumati durante i pranzi e le cene legate alla festa. Gli abitanti di San Lorenzo si impegnavano quindi a donare formaggi, pane e carne di tutti i tipi, soprattutto carne di pecora. La pecora veniva cucinata in pentoloni enormi e il suo brodo aveva un duplice utilizzo: veniva servito caldo in piccole scodelle di terracotta e veniva utilizzato per la preparazione della Zuppa gallurese, il piatto tipico della Gallura. Il giorno della festa di San Lorenzo era atteso da tutti con emozione ed entusiasmo: i bambini, durante il pranzo sedevano a terra (sopra un lenzuolo steso per loro) e mangiavano petta e minestra ossia carne e minestra e su pani sciocco. Questo tipo di pane non lo si mangiava tutti i giorni, i bambini allora ne facevano scorta nascondendo i panini sotto i vestiti, per chiederne dell'altro.

GLI UOMINI E LA TERRA

Altri momenti di festa e di aggregazione erano le feste come Natale e Pasqua. I nostri nonni erano per lo più pastori e agricoltori, che non potevano lasciare i campi e il bestiame. Per loro le giornate di festa in realtà non erano molto diverse dalle altre: chi era legato da un contratto al proprietario della terra e degli animali doveva lavorare anche la mattina di Natale o di Pasqua. L'unica differenza era che, una volta rientrati a casa, i lavoratori venivano avvolti dal profumo dell'agnello: le giornate di festa erano le uniche occasioni per poter mangiare questo tipo di carne, che allora era proibitiva per la maggior parte delle famiglie.

LE DONNE E LA FAMIGLIA

Le nostre nonne, invece, si occupavano della casa e dei figli. Tenevano in ordine le poche stanze che componevano le case di allora, educavano i propri figli, lavavano i panni al fiume, cucivano i vestiti per tutta la famiglia e preparavano il “corredino” per la nascita di un figlio o di un nipotino. Le future mamme, infatti, ricamavano i bavaglini, cucivano sos manteddos, le fasce di tela e di mollettone, e su zipponeddu il giubbotto per l'inverno. Soprattutto si faceva scorta di fasce in tela e di mollettone perché venivano utilizzati come pannolini, quindi si tendeva a farne grossa scorta, anche perché con un bambino appena nato non sempre le neo mamme riuscivano ad andare al fiume a lavare i panni. Le fasciature rimanevano ferme grazie a un'ulteriore fascia, sa fasca, che si metteva nella schiena del bambino, in orizzontale, e chiusa con una spilla da balia. Le mamme ricamavano anche il vestitino per il battesimo, che veniva celebrato qualche tempo dopo la nascita. Se si poteva non si aspettava mai più di un mese, perché si temeva Sa survile, figura fantastica della tradizione gallurese che, secondo la leggenda, succhiava il sangue ai bambini non battezzati.


San pietro

SAN PIETRO È SORTINISSA?

Il borgo di San Pietro un tempo era noto con il nome di “San Pietro del Bosco” ed era caratterizzato da due aggregati. Il più antico era posto sulle pendici della Costa di Darétu, gradualmente abbandonato dagli abitanti per spostarsi più in basso ai margini della strada provinciale, dopo la sua apertura. L'altro aggregato si trovava ai bordi della stessa strada, dove sorge anche la chiesa dedicata all'apostolo Pietro. I ruderi dell'antico borgo affiorano sul lato nord della chiesa, nell'Olticèddu di lu Putzu e nella Minda di la Fai. Tra i ruderi si può individuare un antico pozzo realizzato con i conci di scisto legati a secco, e sia all'interno che all'esterno dell'edificio sacro, sono stati rinvenuti numerosi seppellimenti. La posizione del borgo di San Pietro fa pensare che questo possa essere l'antica Sortinissa, citata più volte nel Liber Fondachi, il registro fiscale pisano dove, nel XIII secolo venivano riportate le entrate fiscali dei possedimenti pisani in Sardegna. Secondo questa testimonianza, nel 1317/1318 in quel periodo il borgo era abitato da quattordici famiglie per un totale di circa una settantina di persone. Questo rende il borgo di Sortinissa uno dei centri di media grandezza della Gallura inferiore del XIV secolo.

UNA SOCIETÀ PASTORALE

Nel borgo di San Pietro, fino a mezzo secolo fa, la principale fonte di sostentamento era la pastorizia. Quando un abitante del borgo voleva avviare questa attività ma non possedeva niente, i pastori della zona gli donavano una pecora, permettendogli quindi di formare il proprio gregge e iniziare a lavorare. Questa pratica era definita punitura e avviene ancora oggi quando un pastore perde il gregge a causa di calamità naturali come le alluvioni. Molti pastori invece preferivano occuparsi del bestiame altrui: curavano gli animali e poi dividevano i frutti del lavoro - agnelli, lana e latte - con il proprietario del bestiame. Il terreno utilizzato era del proprietario e veniva chiamato pasculu. Sempre nel mondo della pastorizia, gli anziani ricordano il contratto a cappucciu. Questo si stipulava quando sia il pastore che il proprietario avevano il bestiame. Generalmente il proprietario aveva anche la terra e metteva a disposizione i 2/3 delle bestie che componevano il gregge, mentre il resto lo metteva il pastore. I frutti del lavoro, infine, venivano divisi nella medesima proporzione. A maggio tutti i pastori procedevano con la tosatura delle pecore, per la quale si utilizzava la fòlbicia pa tundì, le forbici per tosare, e anche qui vigeva collaborazione e solidarietà tra pastori. Se un pastore aiutava a tosare le pecore di un suo confinante o amico, il prestatore di lavoro non riceveva una somma di denaro ma un aiuto nella tosatura delle pecore di sua proprietà. Questa pratica era definita agghjutu turratu.

LA MIETITURA E LA TREBBIATURA

Un'altra fonte di sostentamento per gli abitanti di San Pietro era la lavorazione della terra. Anche in questo caso chi non possedeva niente poteva comunque lavorare per qualcun altro: il contratto tra le parti - il proprietario del terreno e il lavoratore - era chiamato a mezzadria. Il lavoratore, chiamato mezzadro, si occupava della terra e metteva a disposizione il proprio il giogo con il carro e i buoi. Il raccolto ottenuto si divideva a metà. A maggio arrivava il momento della mietitura, con il raccolto del grano maturo. Questo veniva raccolto in bulzéddhi, cioè in piccoli mazzi: venti mazzi componevano la maniata. La trebbiatura, in gallurese agliòla, si praticava a luglio: si separavano i chicchi di grano dalle spighe grazie all'ausilio dei buoi e durante una giornata di vento, lo si sollevava in aria (vintulàa) per separare il grano dalla paglia e dai residui.

Baia sant'anna

Baia Sant'Anna ha un fondo di sassi e scogli che la rende apprezzata dai pescatori ma anche da chi pratica le immersioni per godere della bellezza dei fondali. Si trova di fronte l'isolotto dei Pedrami, abitato da diverse specie di uccelli. Per queste caratteristiche è meno adatta alla balneazione dei più piccoli, ma può essere rilassante per chi desidera sole e relax o da chi ha dimestichezza con il windsurf. Da non confondere con la vicina pineta di Sant’Anna, ultimo lembo della Baia di Budoni. Imperdibile il molo abbandonato che contribuisce a creare l'atmosfera unica di questo luogo.

Lu linalvu

Lu Linnalvu è un piccolissimo borgo di Budoni, situato a 25 metri sul livello del mare e a 1,36 km dal centro di Budoni e si trova lungo la SP24 in direzione Brunella.

Nel borgo di Lu Linnalvu risiedono appena 11 abitanti, distribuiti in 7 nuclei familiari.

Lu Linnalvu è un borgo tranquillo e silenzioso, immerso nella campagna e situato a pochi passi dal mare; è costituito in gran parte da un territorio di tipo boschivo, con lecci e sugheraie, ed è per questo la meta ideale per gli amanti della natura e per chi pratica il trekking. Nei dintorni si trova l’omonimo laghetto artificiale, che conferisce fertilità  al terreno e che offre riparo durante l’anno a diverse specie avicole, stanziali e migratorie.

Malamurì

Una leggenda narra che questo borgo fosse abitato, un tempo, da un tenace capofamiglia al quale capitavano disgrazie e malanni che misero più volte alla prova la sua salute. Quando non parevano esserci possibilità di salvezza e tutti si preparavano al peggio, ecco che l’uomo si riprendeva e tornava alla vita di tutti i giorni. Per questo suo attaccamento alla vita e gli “scherzi” che l’uomo faceva alla morte, gli venne dato come soprannome proprio malamurì, che diventò anche il nome dello stazzo e quindi, dell’attuale borgo. Non erano anni facili, soprattutto in località come queste in cui la vicinanza degli stagni era un rischio per la malaria. Nella zona c’erano alcuni medici e non mancavano i rimedi naturali: lu capumiddu, la camomilla, fungeva da sedativo e la palmuccia, la malva, da antinfiammatorio e analgesico. Comunque sia i decessi, soprattutto infantili, erano quasi all’ordine del giorno.

IL CULTO DELLA MORTE

Quando a Malamurì, ma anche negli altri borghi, moriva qualcuno, la comunità si mobilitava per dare una mano alla famiglia colpita dal lutto. Gli uomini si occupavano di costruire artigianalmente la bara, mentre le donne preparavano i pasti e badavano ai bambini. Durante la veglia arrivavano le prefiche, le donne che inscenavano il lamento funebre raccontando in modo cantilenato e in rima la vita del defunto. A quanto pare le prefiche galluresi non prendevano compensi, mentre è risaputo che in altre zone della Sardegna queste fossero pagate per il servizio. Dopo il lamento funebre e la chiusura della bara, si andava alla messa: a questa, però, potevano partecipare solo gli uomini, mentre le donne venivano escluse dalla cerimonia. Da questo momento iniziava il periodo del lutto per tutta la famiglia: i parenti stretti si astenevano dal partecipare a cerimonie festose e anche dal preparare dolci fatti in casa. Tutte le mansioni “allegre” dovevano essere rinviate a tempi migliori. Per fortuna lo spirito di comunità e solidarietà emerge sempre, nei piccoli borghi: i vicini di casa, durante le feste, donavano una parte dei dolci preparati per l’occasione alle famiglie in lutto, come per dare conforto. In seguito alla morte di un famigliare, per un determinato lasso di tempo, i componenti della famiglia indossavano, secondo gli usi e i costumi, una fascia nera sul braccio, dimostrando quindi di “portare il lutto” anche negli eventuali momenti di socialità. La madre che perdeva un figlio teneva il lutto per tutta la vita, la vedova fino al prossimo matrimonio, i figli per due anni, le sorelle o i fratelli invece per uno solo. Spesso gli uomini si facevano crescere la barba, in segno di lutto.

LA NASCITA

Se le morti erano frequenti, anche le nascite non erano da meno: le famiglie erano numerose, spesso composte da otto/dieci figli e ogni nascita era un evento da festeggiare. Quando le donne comunicavano di essere in attesa, i parenti e gli amici facevano a gara per indovinare il sesso del nascituro. Studiavano attentamente la pancia: una leggera sporgenza in avanti indicava che sarebbe stata una bambina, mentre una pancia arrotondata indicava un maschietto. Un’altra cosa alla quale si stava molto attenti, era evitare di parlare di cibi come frutta o verdura difficilmente reperibili nella stagione della gravidanza: si sa che le donne in attesa spesso sono preda di voglie, e la loro insoddisfazione causava, secondo la mentalità del tempo, una macchia più o meno estesa sul corpo del nascituro.

COME ARRIVARCI

Da Olbia prendete la SS131 DCN direzione Nuoro. Dopo circa trenta chilometri prendete l’uscita Budoni/Agrustos e imboccate la SP1 seguendo le indicazioni per Malamurì.