La storia del nostro territorio ha delle radici risalenti al 4000a.c.

Nelle campagne intorno ai centri abitati e soprattutto sulle colline si notano i resti di quelle che erano la vestigia del passato.

In tutto il territorio, infatti, sono presenti alcuni monumenti che attestano la frequentazione di questa zona già nel periodo neolitico (ca. 4000 a.C.).

La presenza di queste antiche popolazioni è legata al fiume Salamaghe che rendeva fertile il territorio circostante, consentendo a queste genti di procacciarsi il necessario per la sopravvivenza.

Il monumento più importante di quest'epoca è la domus de janas di L'agliola a Solità: si tratta di una sepoltura scavata nella roccia scistosa, ad un'unica cella con una nicchia sul lato destro.Il monumento è stato vincolato ai sensi della legge 1089, con decreto ministeriale, nel 1976. Più evidenti le tracce lasciate dalle popolazioni nuragiche (ca. 1700-1800 a.C.), anche se di alcuni monumenti rimangono pochi resti a causa dell'azione demolitrice degli scavatori clandestini. Scarse le testimonianze del periodo romano, anche se in tutto il territorio si rinvengono abbondanti frammenti ceramici relativi a questo periodo e i viaggiatori di fine 1800 ricordano le vestigia degli antichi centri, primo fra tutti quello di Augustus Populus nei pressi dell'odierna frazione di Agrustos.

Dopo la caduta dell'impero romano si intensificarono le incursioni dei barbareschi, per cui la popolazione si ritirò verso le più sicure colline. Solo in pieno Medioevo il territorio è stato rioccupato da popolazioni dedite all'agricoltura e pastorizia provenienti soprattutto dall'interno della Sardegna. In età giudicale (1000-1420 ca.) l'agro di Budoni appartenne al Giudicato di Gallura (curatoria di Posada) passato poi sotto il dominio pisano.Nel Liber Fondachi - registro dei beni posseduti nell'isola dalla città di Pisa - sono ricordate la villa di Sortinissa e quella di Tamarispa come tributarie del fisco pisano; l'insigne medioevalista Dionigi Panedda colloca, quasi con certezza, la villa di Sortinissa nella frazione di San Pietro e quella di Tamarispa a breve distanza da quella odierna che ne ricorda anche il nome, mentre il toponimo di Sortinissa si è perso in quanto la villa decadde già a partire dall'inizio del XV secolo.Le sorti dell'agro di Budoni - che ricordano non esisteva sotto tale nome -sono legate alla villa di Posada e ne subirono le alterne vicende sia durante il dominio aragonese sia durante quello spagnolo e sabaudo. A tale villa rimase legato sino al 1958 quando il piccolo centro divenne comune autonomo iniziando un nuovo capitolo della sua storia.



Architettura Legata al mondo agro pastorale, la tipica abitazione di gran parte del territorio comunale deve la sua origine all'unione degli elementi architettonici galluresi a quelli della tipica abitazione sarda importata, quest'ultima, dai pastori provenienti dall'interno dell'isola. Questa struttura, denominata stazzo, è nota anche con il nome di habitat disperso proprio per il suo isolamento territoriale.Tale insieme comprendeva sia la casa rurale in cui viveva la famiglia del colono con le relative dipendenze, sia la superficie agraria in cui si praticavano l'allevamento e l'agricoltura. Essa era costituita da un'unica camera - che fungeva sia da cucina sia da camera da letto - da uno stanzino per il forno e da un magazzino per gli utensili da lavoro e per la legna. Il centro dell'abitazione era il focolare attorno al quale si riuniva tutta la famiglia.

Il tetto a doppio spiovente o ad un'unica falda è coperto da tegole fermate da sassi. La porta, eccentrica rispetto alla facciata, non si apre mai a nord per evitare il vento di tramontana. Per la costruzione di queste abitazioni venivano usati materiali facilmente reperibili: fango, argilla, pietre e legno per le travi. Esse venivano isolate dalla intemperie frammischiando all'argilla del sughero sbriciolato.

Quest'architettura ha subito, in seguito, le influenze della cultura baroniese, dando origine a delle costruzioni particolari in cui sono presenti entrambi gli stili.Ricordiamo a tale proposito i due palazzoti signorili presenti nel territorio, al cui interno questi stili si armonizzano perfettamente integrando l'architettura povera dello stazzo gallurese con quella delle ricche abitazioni dei pastori dell'interno della Sardegna.

.Il patrimonio dei beni paesaggistici e identitari del territorio di Budoni

Nonostante, nella storia, il territorio di Budoni sia stato teatro di fervente attività e innumerevoli eventi, in particolare nel periodo romano (Portus Luguidonis che aveva ubicazione in zona Santa Lucia, e lo scalo di Augustus Populus poco distante dall’attuale Budoni ne dimostrano l’importanza) e in quello medievale per la sua appartenenza storica al territorio di Posada, esso non ha conservato e restituito una stratificazione documentale monumentale corrispettiva al suo passato. Tra i monumenti si contano, infatti, solo poche tracce del periodo neolitico e nuragico e alcune architetture religiose del XX secolo. Non si è rinvenuta, invece, nessuna testimonianza del periodo romano e medievale.

I beni rinvenuti si organizzano nelle seguenti categorie dei beni paesaggistici

Categorie di Beni Paesaggistici:

- Aree funerarie dal preistorico all’alto Medioevo:

1. Domus de janas L’Agliola

2. Domus de janas Sa Conchedda

- Aree caratterizzate da edifici e manufatti di valenza storico culturale:

1. insediamenti archeologici:

1.1. Nuraghe di Conca Ento

1.2.Nuraghe Ottiolu

1.3.Nuraghe Punta ‘e Nuraghe

1.4.Nuraghe Abbaia

- Architetture religiose medioevali, moderne e contemporanee:

1. Chiese parrocchiali e non, e cimiteri:

1.1. Chiesa di San Giovanni Battista

1.2. Chiesa di Sant’Anna

1.3. Chiesa di Sant’Antonio

1.4. Chiesa di San Lorenzo e cimitero

1.5. Chiesa di San Pietro

1.6. Chiesa di Sant’Antonio

1.7. Chiesa di San Sebastiano

1.8. Cimitero di Budoni

1.9. Cimitero San Pietro

- Aree caratterizzate da insediamenti storici

1. I nuclei di primo impianto e di antica formazione

1.1. Centro matrice Agrustos

1.2. Centro matrice Tanaunella

1.3. Centro matrice Solità

1.4. Centro matrice San Gavino

1.5. Centro matrice Lu Linnalvu

1.6. Centro matrice San Pietro

1.7. Centro matrice Li Troni

Gli elementi dell’insediamento rurale sparso

2.1. Stazzo Corrongiu ante 1847– Fraz. Li Troni

2.2. Stazzi Decandia – 1 ante 1847 Fraz. Maiorca– 2 Li Troni, uno ante 1847

2.3. Stazzo Giagheddu – Fraz. Li Troni

2.4. Stazzo Meloni – Fraz. Agrustos

2.5. Stazzo – Fraz. Agrustos

2.6. N. 2 Stazzi Fraz. Berruiles

2.7. N. 2. Stazzi Fraz. Nuditta

2.8. Stazzo Fraz. Su Linnalvu vecchia ante 1847

2.9. Stazzo Fraz. San Gavino

2.10. N. 5. Stazzi Fraz. San Pietro uno ante 1847

I Beni identitari

- Reti ed elementi connettivi

1. Rete infrastrutturale storica

1.1. Casa cantoniera

Come già detto ed evidenziato nell’elenco su riportato, il territorio di Budoni è stato abitato sin da età neolitica. Le testimonianze di questo periodo si riducono, tuttavia, a sole due domus de janas mal conservate che non ci hanno restituito alcun reperto culturale.

Anche i nuraghi sono in pessimo stato di conservazione e non risulta siano mai stati oggetto di scavi stratigrafici, quindi nulla sappiamo degli aspetti culturali e di vita che li hanno interessati.

Le architetture religiose sono da riferirsi tutte al XX secolo eccetto la chiesa di San Giovanni Battista risalente a fine ‘800. Si contano tre cimiteri e sei chiese molto semplici con un modulo architettonico che si ripete quasi invariato: tre casi con navata unica con tetto a due falde, (San Giovanni Battista, San Lorenzo e San Pietro); in Sant’Antonio e San Sebastiano la navata è coronata da un’abside a pianta esagonale cui si affiancano un campanile e la sacrestia. Sant’Anna varia il precedente motivo affiancando ai lati della navata coperta da un tetto a due falde due corpi più bassi con copertura a padiglione.



L'autonomia Comunale.

Il primo passo alla costituzione del nuovo Comune di Budoni, si ebbe l'8 febbraio del 1957, quando il consiglio comunale di Posada, con le delibere n. 13 e 14, erigeva a comuni autonomi le ex frazioni di Budoni e San Teodoro. Successivamente con i decreti regionali pubblicati sul bollettino ufficiale il 16 e 18 aprile 1959, il consiglio comunale di Posada, riunitosi il 30 aprile, prese atto dell'entrata in vigore dei decreti e si dimise, consentendo la costituzione dei tre Comuni che vennero prontamente commissariati. Il commissario prefettizio inviato a Budoni, era il dr. Cianciolo della prefettura di Nuoro che restò in carica sino al novembre dell'anno successivo, quando fu eletto il primo consiglio comunale budonese che elesse alla carica di sindaco il compianto Antonio Giagheddu.





La Chiesa San Giovanni Battista


La leggenda narra, che a fine ‘800 un tale sognò San Giovanni Battista che “ordinò” la costruzione della piccola chiesa in un punto ben preciso: Budoni.
Il tale Braccu, meravigliato, si oppose, “perché costruirla in un posto così disabitato?”
Ma il Santo lo ammonì dicendo: “Verranno giorni in cui a Budoni ci sarà molta gente; ma se non eseguirai il mio ordine, gravi disgrazie succederanno a te e a altri 20 giovani”.
Il Braccu avvisò il proprietario del terreno (Peppe Corronciu) su cui edificare la chiesa, ma questo ignorò la richiesta.
Nel medesimo anno Il Braccu passò a miglior vita cosi come altri giovani.
Allora (E fu così che?) il Corronciu si prodigò in fretta nella costruzione dell’opera, così come ordinato da San Giovanni Battista.
Bisogna sapere però che nel 1889 si creò una sottoscrizione popolare per l’edificazione della Chiesetta in questione e noi siamo riusciti a trovare alcuni documenti importantissimi, il primo appartenuto al Brigadiere Michele Pirina e gentilmente messo a disposizione dalla nipote Chiara che riporta gli “introiti” (lire 483,38) ottenuti dalle varie famiglie e tutte le “spese” (lire 719,30) sostenute per l’edificazione dell’edificio di culto cui il paese era sprovvisto.
Da tale documento si evince che nonostante un saldo negativo di lire 235,92 il Gruppo dei volenterosi allevatori non demorsero riuscendo infatti, nell’impresa..
Nel 1896 si procede alla sistemazione delle tegole e nel 1897 la chiesa venne consegnata.

Altro documento importante donatoci dal sindaco emerito Nino Durgoni è inerente all’ erezione della Parrocchia Budonese fino ad allora sotto Posada, ciò avvenne il 1 ottobre 1948 con decreto del Vescovo Joseph Melas.

Nel 1963 dopo più di 60 anni di gloriosa attività la chiesetta viene demolita e al suo posto sorgerà la nuova con maggior capienza, a dimostrazione del fatto che il Santo aveva ragione sull’espansione che avrebbe avuto nel tempo il piccolo borgo di Budoni, oggi uno dei centri turistici più importanti del nord Sardegna.

L’edificio di carattere contemporaneo, ricorda l’immagine di una tenda. Il portone in legno, con i suoi in pannelli di bronzo, è opera del dorgalese Totorino Spanu e riproduce momenti di vita di S. Giovanni Battista. In facciata il rosone, raffigurante il battesimo di Gesù, è stato disegnato da Antonio Pusceddu. All’interno, sul lato destro della navata si trova un originale tabernacolo, in mosaico e vetro colorato, realizzato su un disegno di Franca Perino. L’abside ha cinque vetrate che raffigurano Gesù e i quattro evangelisti. La statua lignea di San Giovanni Battista con l'agnello, che si trovava già nella vecchia chiesetta è stata restaurata dall'artista locale Pietro Bacciu nel 1992. Di particolare interesse è poi il Cristo Redentore, scolpito in legno di tiglio da Senoner Richard e dipinta da Erich Mussner. Alle pareti i quadri raffigurano le stazioni della Via Crucis. Il rosone, il tabernacolo e le cinque vetrate sono opere finanziate grazie agli apporti della comunità budonese.


Budoni e la SS 125 Orientale Sarda

La storia di Budoni è strettamente connessa a quella della strada statale 125 denominata Orientale Sarda, non tanto e non solo perché uno dei suoi primi edifici è costituito dalla Casa Cantoniera sede degli addetti alla manutenzione della medesima strada , ma anche e soprattutto perché essa ha rappresentato un’irresistibile attrazione che ha portato alla nascita del paese, ed ha costituito, nel bene e nel male, lo stesso asse portante del suo sviluppo urbanistico.

La ragione di questa attrazione  è presto spiegata se si tiene presente la caratteristica primaria dell’antropizzazione del nostro territorio, peraltro comune all’intera area gallurese, costituita com’è da piccoli agglomerati abitativi sparsi nelle campagne e chiaramente derivati dagli originari stazzi. La bella strada statale invero attraversava l’intero comprensorio comunale ma senza tuttavia collegare fra loro i suoi numerosi piccoli agglomerati urbani, che , anzi, rimanevano appena connessi da tortuose e anguste carrarecce (“camini saldi”) , sconnesse e fangose, le quali consentivano a malapena il transito dei rustici carri a buoi.

Si comprende quindi benissimo la forza attrattiva che l’arteria statale, con il transito dei moderni automezzi che aprivano nuovi orizzonti,  ha esercitato su gran parte degli abitatori degli stazzi, i quali per rompere l’atavico isolamento, sono stati indotti a spostare la loro abitazione a ridosso della medesima. Se poi si  aggiunge che l’area in cui sorgeva la Casa Cantoniera era baricentrica e pressoché equidistante dai vari stazzi , si comprende anche  la ragione della sua scelta come riferimento per l’edificazione e l’aggregazione delle nuove case che hanno dato origine all’abitato di Budoni. Occorre però dire anche che questa incontrollata tendenza ad edificare la propria casa in fregio alla strada statale ha purtroppo comportato anche conseguenze negative nello sviluppo del tessuto urbano del paese alle quali hanno cercato di porre rimedio poco convintamente gli strumenti urbanistici comunali, e , conseguentemente, con risultati non sempre soddisfacenti.

            Nello scorcio finale del XIX secolo, a breve distanza dalla Casa Cantoniera, fu edificata la chiesetta di S.Giovanni Battista ora demolita e sostituita dall’attuale chiesa parrocchiale. Narra la leggenda che la sua edificazione fu richiesta specificamente dal Santo con ripetute apparizioni in sogno ad un devoto di Tanaunella al quale indicò anche l’esatto sito ove la stessa doveva sorgere, Essendo quell’area di proprietà privata, quel devoto si rivolse al sig. Giuseppe Corronciu , noto agiato imprenditore agricolo del luogo, il quale, oltre a mettere a disposizione l’area, si incaricò anche di aprire una sottoscrizione per la raccolta dei fondi necessari e di sovrintendere alla stessa costruzione dell’edificio. Nei primi anni del Novecento, per iniziativa e a spese del Cav. Michele Pirina, genero del Corronciu, la chiesetta venne affrescata dal pittore Vittorio Danese con scene raffiguranti il Santo che battezzava Gesù nonché la sua successiva decapitazione ad opera di Erode. Questo prezioso dipinto andò purtroppo distrutto  con la sciagurata demolizione della chiesetta che ha privato la comunità budonese di una delle sue memorie storiche più significative.

Altra rilevante memoria storica del paese , ora perduta, era costituita dal mulino di proprietà della famiglia Pirina, che per decenni fu al servizio degli utenti di un vastissimo comprensorio che andava da S. Teodoro a Siniscola. L’edificio che lo ospitava era ubicato anch’esso in fregio alla S.S. 125 , in un’area antistante la Casa Cantoniera. Si trattava di un bell’impianto, comprendente diverse macine azionate da un gigantesco motore a vapore alimentato a carbone, che  restò in funzione dai primi del secolo scorso fino ai suoi primi anni sessanta.

Ancora nei primi decenni del secolo scorso accanto alla chiesetta venne edificata, con finanziamento del Vaticano, la Casa Parrocchiale successivamente destinata ad accogliere a lungo la scuola elementare , e anche altre attività d’interesse pubblico, fino all’anno 1948 quando con la creazione della nuova parrocchia indipendente da quella di Posada, pur ospitando ancora un’aula scolastica,  fu definitivamente occupata dal primo parroco nella persona del compianto Don Mario Soletta.

Dopo gli edifici citati vennero via via edificati, sempre ai margini della 125, quelli destinati alle abitazioni delle prime famiglie (Amadori, Durgoni, Demuru, Careddu , Ventroni etc.) ; furono aperti i primi esercizi commerciali da parte della famiglia Demuru, ed anche una “Trattoria-Vini-Liquori” ad opera della famiglia Durgoni-Oggianu. Fu anche istituito un ufficio postale che venne affidato alla famiglia Amadori.

 Si può dunque affermare che la strada statale 125 ha dato i natali all’abitato di Budoni e tuttora ne costituisce  con la via Nazionale la parte più rappresentativa. Questa strada fino agli anni cinquanta del secolo scorso era bianca,  era pavimentata cioè in semplice macadam, ossia ricoperta di uno spesso strato di ghiaia calcarea, la quale in parte refluiva sotto le ruote dei veicoli sconvolgendo il piano della carreggiata, e in parte veniva frantumata e macinata con grande produzione di sottilissima polvere biancastra. Ed era proprio questa polvere a provocare le tanto temute “spolverate”, che, per la verità, non infastidivano i soli “parlamentari” di “montecitorio”, ma arrecavano grave nocumento anche agli esercizi pubblici e all’intera comunità.

A riassettare il manto stradale, continuamente sconvolto dalle ruote dei veicoli in transito, pensavano giornalmente i cosiddetti cantonieri, ognuno dei quali ne aveva in consegna una tratta di circa sei/otto chilometri di lunghezza. La ghiaia consumata dal traffico veicolare veniva da loro risarcita attingendo ai cumuli approvvigionati nelle piazzole dislocate ai margini della stessa carreggiata[1]. Ed avevano il loro ben da fare i cantonieri stradali, perché in quei tempi oltre agli automezzi percorrevano la via anche numerose mandrie di animali che talvolta producevano anch’esse molti danni alla carreggiata. Come quella volta che, in un cantone non molto lontano, un branco di maiali in transito, durante la notte, aveva totalmente sconvolto il manto stradale lungo tutto il percorso. L’indomani il cantoniere cui era affidata la manutenzione della tratta danneggiata, furente per il misfatto , convinto fosse doveroso individuare e punire severamente il porcaro responsabile , pensò bene di denunciare il fatto ai suoi superiori inviando il seguente telegramma : “All’Ingegnere Capo Compartimento Anas Cagliari. Strada sforroncata (sic!) stop maiali in passaggio stop provveda lei. Cantoniere Biancu”. Sembra superfluo aggiungere che il poveretto corse seri rischi di licenziamento in tronco.

Ma , al di là di inconvenienti di questo tipo, bisogna dire che i cantonieri si impegnavano scrupolosamente a tenere in ordine il tratto di strada a loro affidato, ed erano anche dei grandi lavoratori. Non tutti però. C’era in effetti anche tra loro qualche rara pecora nera. Ma erano davvero casi eccezionali. Come quello di un cantoniere di un comprensorio distante, che sì, è vero,   soleva lamentarsi spesso della gravosità del compito e dell’eccessiva lunghezza degli orari di lavoro, ma pur tuttavia era rigorosissimo nel rispettarli. Costui invero ogni mattina alle otto in punto approdava con la sua bicicletta nel luogo d’intervento, adocchiava il più grosso cespuglio dei paraggi, vi deponeva accuratamente all’ombra la bici e le vettovaglie, dopodiché, ristoratosi con una lauta colazione, si sdraiava esausto nell’angolo più nascosto del cespuglio a godere del meritato riposo. Puntualissimo alle 12 si svegliava e, consumato un frugale pranzo, si rigirava sull’altro fianco e proseguiva il sonnellino. Alle 17 in punto si destava e, inforcata la bici, pedalata dopo pedalata, stanco morto faceva rientro alla sua cantoniera. Nessuno si accorgeva delle sue abitudini , perché egli era molto attento nello scegliere i giacigli meno visibili dalla strada. Un pomeriggio di una calda estate, avvenne tuttavia che un automobilista in transito , fermatosi per un’impellente necessità fisiologica e preoccupato alla vista di quell’uomo stranamente disteso dentro un cespuglio, lo scotesse vigorosamente per sincerarsi della sua salute. “Che ore sono?”, chiese allora il cantoniere destandosi di soprassalto. “Le cinque e mezza”, rispose l’automobilista. “Porcaccia miseriaccia ladra!”, imprecò irritato allora il cantoniere , “anche oggi l’Amministrazione mi ha fregato mezzora di lavoro ! ”



Sa festa Manna

…cosi pare fosse considerata la festa in onore di San Giovanni Battista di Budoni.

Poche abitazioni circondavano la chiesetta rurale ma quella piazza, disabitata durante tutto l’anno, si colorava di gente proveniente dalla vicina Terranova (attuale Olbia), da Posala, da Siniscola e altrettanto dalle borgate vicine.

I festeggiamenti venivano curati da un piccolo numero di Suprastanti priori (organizzatori) i quali, attraverso le donazioni degli abitanti delle vicine borgate, garantivano due giorni di festeggiamenti, rigorosamente nei giorni del 28 e 29 agosto.

I vespri in onore del santo iniziavano il pomeriggio del 28 agosto, quando decine di CAVALIERI, sfilavano al galoppo per tre giri intorno all’antica chiesetta;

La corsa di LU PALU si svolgeva lungo LU STRADONI via Nazionale: I Cavalli in una folle corsa venivano lanciati dai cavalieri che, anche a SA NUDA, (senza sella) davano prova della loro abilità.

A seguire iniziavano i canti in poesia, con alternanza di diversi tra poeti famosi quali Pirastru di Ozieri, Cubeddu, Tucconi di Buddusò, Rimundu Piras di Villanova Monteleone.

Gli stessi trovavano alloggio per due giorni presso la Casa dei Suprastanti e per la loro esibizione veniva riservato, fino agli anni ’50 circa, il balcone (Lu passiziu) della Casa DURGONI (1927), e della Casa DEMURU e della Casa AMADORI.

La piazza antistante alla piccola chiesa, dedicata al Santo Patrono, si colorava di bancarelle rivestite di NIUALCA (oleandri), dove le bibite venivano rinfrescate con blocchi di ghiaccio adagiati sulla paglia provenienti da Terranoa.

Anche i gelati, certi Bonomo Raffaele e il fratello Giuseppe, con il loro triciclo portavano da Terranoa gustosi e colorati gelati.

Alcuni, allora bambini, ora più grandi, provano ancora il gusto delle delizie che zia Meledda mostrava insieme al torrone di fattura artigianale.

E come non immortalare i ricordi attraverso il fotografo Todde che da  Siniscola, nel cuore della Baronia, sostava per due giorni a servizio di coloro che, su richiesta, portavano a casa i ricordi di quella festa che al calare del sole del 29 agosto volgeva all’anno venturo con l’auspicio di accoglierlo in salute. 



Il Cimitero di Budoni

Cimitero nato alla fine degli anni 20 grazie ad un’idea di Narciso Oggianu, che pensò in maniera lungimirante che l’ubicazione migliore per far nascere, il campo santo era nell’attuale area dove si trova oggi, poiché baricentrica rispetto alle altre frazioni e avendo capito che il paese sarebbe stato un centro turistico di alto livello;

la sua previsione di futura espansione è sotto gli occhi di tutti.

Tante ahimè sono le persone che frequentano tale luogo per svariati motivi, ma in pochi sanno che all’ingresso della porta principale del Cimitero è presente una scritta con riferimento all’epoca del fascismo (A/VII).

Per capire l’esatta edificazione della struttura è semplice al 1922 (anno del Fascio) si aggiungono i numeri romani che susseguono in questo caso 1922 più VII dunque la data esatta è 1929, però negli anni, le abbondanti tinteggiature effettuate da incauti imbianchini hanno reso illeggibile tale scritta.

La costruzione del Cimitero avvenne sotto il pontificato di PIO XI.

Sempre in quel periodo furono edificate le chiese di Brunella, Berruiles, Solità, Tanaunella, e la Canonica di Budoni, all’entrata di quest’ultima è presente l’effige del Vaticano, anch’essa danneggiata da qualche buontempone.

Un po’ di storia… Budoni fu eretta Parrocchia l’1 ottobre 1948 con decreto del Vescovo Joseph Melas. (decreto originale in mio possesso).

Egli decretò che alla Parrocchia SAN GIOVANNI BATTISTA in Budoni facessero capo tutte le frazioni di Budoni più Coddulavà, Franculacciu, Lu Tittione, Oltana Manna, Schiffone, Silìmini, Stazzu Brusciatu poi Brunella e Talavà.OGGI IL CIMITERO DI BUDONI E’ SOGGETTO AD UN RESTAURO IMPORTANTE, “FINALMENTE”,

A videcci sani.


Porto ottiolu



Il 29 aprile del 1985 avvenne la posa della prima pietra dal Sindaco Nino Durgoni, colui che più di tutti ha voluto realizzare il Porto Turistico di Ottiolu, (la prima pietra è ubicata al centro della piazzetta principale).

Situato lungo la costa nord-orientale, a 30 chilometri a sud di Olbia, il porto di Ottiolu è attualmente uno dei porti turistici più importanti della Sardegna. Si estende nel territorio di Budoni, nella nuova provincia di Olbia-Tempio, fra la Gallura e la Baronia. Dal porto si accede alle splendide spiagge e alle meravigliose scogliere. Oltre a godere di una posizione riparata dai venti, quindi naturalmente favorevole all’ingresso di qualsiasi tipo di imbarcazione, il bacino è costituito da un avamposto e da un complesso di banchine che si estendono per ben 2000 metri, davanti alle quali è sorto il centro abitato e residenziale di Ottiolu, con la splendida piazzetta centrale ed i servizi annessi quali bar, ristoranti, locali commerciali e uffici.

Accesso - Norme particolari da osservare: Chi provenienza da sud deve passare a 1 mg. da "Pedrami" Isolotto di Ottiolu, lasciando la boa cardinale nord a sinistra.

Chi proviene da nord e preferibile passare a 1 mg da Punta Ottiolu lasciando la boa cardinale nord a sinistra.

Fondo marino: misto: roccia, fango e sabbia

Fondali: 5 mt in avamporto; da 3.50 a 4.50 in porto.

Fondali in banchina: min 2.30 max 3.00 mt

Collegamenti radio: (frequenza e canali) VHF canale 9 e 16 in ascolto per emergenze

Divieti: Vietato per pescherecci e commerciali se non in emergenza.

RITROVAMENTO DI REPERTI ROMANI RISALENTI A 2000 ANNI FA.

MATERIALE GENTILMENTE CONCESSO DAL COMANDANTE GUARDIA COSTIERA AUSILIARIA DI PORTO OTTIOLU  LORENZO MICHIELI.

Alla meta degli anni '90 la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Sassari e Nuoro fu contattata da un privato cittadino che si trovava in vacanza in un villaggio turistico a Porto Ottiolu per segnalare un reperto archeologico in mare. Il signore, facendo il bagno davanti alla spiaggia del villaggio, aveva visto affiorare dalla sabbia la bocca di un grande vaso di terracotta; spostando leggermente con le mani la sabbia attorno all'imboccatura, si scorgeva il resto del vaso, sistemato quasi in verticale. Si trattava di un grande vaso di epoca   romana, chiamato dolium (dolio), che serviva per conservare e per trasportare merci come il vino o l'olio. Con grande precisione, il signore mandò alla Soprintendenza una lettera, alcune fotografie e un disegno che   mostrava la spiaggia con la posizione dell'isoletta di fronte e ii punto dove era il dolio, conservato a circa 3 metri di  profondità. I tecnici della Soprintendenza fecero un sopralluogo e accertarono che II vaso era autentico; cosi Si avviarono la pratica di vincolo e quella per pagare al signore il premio di rinvenimento, che spetta per legge a chi segnala un reperto archeologico, senza danneggiarlo.

 

Ma   cosa ci faceva un grande vaso di eta romana in acqua davanti alla spiaggia di Porto Ottiolu?

 

Per sciogliere questo dubbio, net 2001 la Soprintendenza elaboro un progetto e chiese i fondi at Ministero per realizzare una campagna di scavo subacqueo in varie località, tra cui Porto Ottiolu. I fondi furono concessi e cosi nel mese di giugno del 2003, con l'aiuto di una ditta  privata specializzata negli scavi archeologici subacquei e con la presenza quotidiana del personale subacqueo interno, si è potuta realizzare la prima campagna di scavi subacquei a Porto Ottiolu.

Bisogna dire che, data la bassa profondità del sito e vista la presenza di numerosi bagnanti, un importante aiuto ai lavori,   sia per la sicurezza dei bagnanti, sia per la tutela dei reperti archeologici che potevano facilmente essere rubati, e stato dato dalla Guardia Costiera Ausiliaria di Porto Ottiolu, che ha assistito ai lavori e continua a vigilare sull'area anche dopo la fine dello scavo.

Con l'aiuto di una sorbona ad acqua, una specie di grande aspirapolvere formato da un compressore collegato ad un tubo sott'acqua che aspira la sabbia del fondo e la ributta ad una certa distanza dallo scavo, si è visto che non si trattava di un singolo oggetto, ma di un vero e proprio giacimento archeologico subacqueo.

 

Togliendo la sabbia, sono emerse grandi lastre di marmo, frammenti di lastre spezzate dello stesso marmo di vane misure, e molti frammenti di vasi uguali a quell° che aveva ritrovato il signore, sistemati come se fossero crollati verso la spiaggia.
La perfezione delle lastre, tagliate in maniera impeccabile e ben lisciate, in un primo momento aveva fatto pensare che potessero essere moderne; ma il fatto che si trovano insieme ai vasi romani e il confronto con altre lastre di epoca romana, altrettanto ben fatte, hanno fatto capire che sia i vasi che le lastre sono della stessa età ed appartengono al carico di una nave (non ancora ritrovata) che stava viaggiando lungo le coste della Sardegna nord-orientale.

 

Su uno dei vasi recuperati nello scavo si e potuto leggere, abbreviato, un nome; era uso di imprimere con dei timbri sull'argilla ancora fresca dei vasi le sigle dei proprietari delle tenute che producevano il vino o olio trasportato (o altra merce). Queste famiglie erano spesso anche proprietarie delle fornaci che producevano i vasi e   potevano essere proprietarie pure delle grandi navi per esportare i loro prodotti da un capo all'altro del Mediterraneo.

 

Dallo studio dei materiali, ancora in corso, si è potuto datare ii giacimento al I secolo dopo Cristo. II tipo di marmo delle lastre e il cosiddetto bardiglio e proviene dalle cave delle Alpi Apuane, che vennero sfruttate dai Romani a partire dall' eta di Augusto, tra la fine del I secolo avanti Cristo e l'inizio del I secolo dopo Cristo, e per tutta I' epoca imperiale. Le lastre dovevano servire a decorare un grande monumento, un edificio pubblico, un tempio, o anche un monumento funerario privato; ii prosieguo degli studi potra chiarire la destinazione di questi materiali, che probabilmente non dovevano essere scaricati a Porto Ottiolu, ma in un centro urbano, come Olbia, o in un altro sito lungo le coste sarde dotato di attre77ature portuali per poter movimentare un carico cosi pesante.


Lo scavo del 2003  di Porto Ottiolu  e durato due settimane;  

si ê dovuto sospendere sia per problemi di fondi (bisognava intervenire su altri siti subacquei nella provincia di Nuoro) sia per l'avanzare

della stagione estiva. La presenza della barca appoggio a breve distanza dalla spiaggia e il rumore lei motori (ii compressore per la sorbona, ii compressore per ricaricare le bombole d'aria) creavano troppi disagi ai bagnanti. Certamente, bisognerà riprendere le ricerche, magari in una stagione diversa (autunno o inizio primavera), sia per documentare per intero ii giacimento archeologico, che sicuramente continua sotto la sabbia verso la riva, sia per controllare se si sia conservata parte della nave

 

Data la bassa profondità, non è probabile che si trovi molto della nave; invece, per i materiali del carico,  i doli e le lastre, una volta rilevato tutto quello che resta, si potrà proporre al Comune la valorizzazione sul posto con la creazione di un parco archeologico sommerso, che potrà venire scoperto durante l'estate e protetto nella cattiva stagione, con un continuo servizio di vigilanza e di accompagnamento dei visitatori, ovviamente se non ci saranno episodi di furto o di danno dei materiali archeologici.

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La Madonna degli Abissi

La Madonna degli Abissi, a nord di Porto Ottiolu, si trova di fronte a Punta de “li turchi”, a 10 metri di profondità e fu realizzata interamente in granito dallo scultore Giuseppe Solinas grazie  alle donazioni arrivate alla comunità di Porto Ottiolu e da parte di tanti devoti.

La statua fu posizionata per la prima volta in mare l’8 agosto del 2001, poi a causa di diversi atti vandalici venne restaurata e ancora una seconda e una terza volta fino a quando si decise di sostituirla con un’altra statua identica, sempre realizzata dal medesimo artista, ma questa volta utilizzando il marmo di Orosei anziché il granito, ciò avvenne il 9 agosto del 2013, con una cerimonia preceduta da una messa celebrata dal vescovo Marcia Mosè e da una processione di barche .

La nuova Madonna degli Abissi, è alta tre metri e sessanta e pesa quattro mila chili. 

In più di decennio la madonnina silenziosamente ha dato protezione a chi la invocava nel momento del bisogno.

“Non so se si può parlare di miracoli – dice il comandante Lorenzo Michieli,  un esperto di soccorsi in mare – però posso dire che Marcello è stato trovato, ormai stremato e senza speranze, a poche miglia di distanza dalla statua. Non solo: sarà un caso, ma la Vergine era stata inabissata solo il giorno prima”.

Era la mattina del dieci agosto 2001.

Marcello, che di cognome fa Fortunato, skipper di Gragnano, era partito da Salerno quattro giorni prima in compagnia di una cugina e di un’amica per trasportare a Porto Cervo un Ferretti di 15 metri, all’inizio tutto bene.

Tappa a Ponza per il rifornimento, poi rotta nord ovest, 160 miglia, otto ore previste di navigazione.

A metà della traversata il Ferretti ha cominciato a imbarcare acqua.

Erano le nove di sera, si era alzato il maestrale e il mare era forza sette.

Marcello era riuscito a contattare la guardia costiera di Olbia e a tamponare la falla con dei cuscini. Due ore dopo però la barca è affondata. Le due ragazze si sono aggrappate a un parabordo e, nella nottata, sono state salvate. 

Fortunato invece ha vagato sul battellino per quattro giorni. Elicotteri, motoscafi, aerei, nessuno lo vedeva.

E dopo cento ore, quando si è messo a pregare la Madonna, ecco uno yacht di 12 metri che l’ha visto, l’ha tirato su e lo accompagnato a Porto Ottiolu.

Gli amici di Porto Ottiolu pensano che sia tutto merito della Madonna degli Abissi, quella Maria Marinara alla quale diversi natali orsono il parroco di Budoni ha dedicato una preghiera speciale durante la messa di mezzanotte. 

Da allora la statua ha continuato per una dozzina d’anni a subire i maltrattamenti e gli sfregi dei teppisti subacquei.

Ma perché si continua la profanazione di una statua rappresentativa della madre di Cristo?

E’ solo stupidità o c'è altro dietro? 

Questo è un danno che far star male.

Un’azione d’intollerabile e vergognosa violenza.

Un atto da condannare e da stigmatizzare, con fermezza che definisco personalmente inaccettabile.

Un sopruso inutile ed irrispettoso, non solo per la chiesa ma per tutti i fedeli della nostra comunità, atto che non deve ripetersi mai più.

Sabato 8 agosto come ogni anno si terrà la Santa Messa in suo onore e poi partiranno i festeggiamenti con della buona musica e con la speranza che quegli idioti che per anni l’hanno tormentata possano lasciarla in pace definitivamente.

Il vero miracolo non è volare in aria o camminare sulle acque, ma camminare sulla terra rispettando ciò che ci circonda.

A videcci sani!


IL CORIANDOLO D'ORO

Carrasciali...

Correva l’anno 1986 quando l’allora direttivo della “nuova-proloco”, appena costituita, decise di dar vita, al “Coriandolo d’oro”;

la prima edizione fu quella del 1987,  appuntamento carnevalesco che ha fatto storia, tant’è che da subito ebbe una certa valenza anche a carattere Regionale, arrivando ad avere nel 1988 circa 17 carri partecipanti, persino l’emittente televisiva Videolina s’interessò ad esso fin dalla seconda edizione, facendo un servizio esclusivo su Budoni e sul suo bellissimo Carnevale; quest’anno il “Coriandolo d’oro” è arrivato alla 30° edizione. (1987 – 2017).

All’inizio della manifestazione, erano premiati i carri migliori (primo, secondo e terzo classificato) oltre che con una coppa dedicata, anche con un premio in denaro abbastanza importante, al fine di stimolare i partecipanti a realizzare carri allegorici sempre più belli.

Il contributo economico se da un lato spronava a far meglio, dall’altro, portò negli anni non poche polemiche; le discussioni fra i vari concorrenti s’inasprirono, in considerazione del fatto che alcuni carri premiati, non furono edificati in loco, ma presi in prestito da fuori paese, in particolare provenienti da Tempio (nota tutt’oggi per la loro vocazione carnevalesca).

Alcuni membri del direttivo proposero in seguito, di comporre una giuria di soli bambini, affidandosi così alla parte più innocente della comunità, pensando in tale maniera di eliminare ogni tipo di dubbio sulla buona fede della giuria stessa; ma anche questa soluzione andò a sfumare, poiché si vollero evitare ulteriori polemiche sull’autonomia di scelta dei bambini, che potevano essere condizionati dai parenti e, onde evitare di coinvolgere i bambini stessi in queste beghe tra f(r)azioni, non se ne fece nulla.

Negli anni la manifestazione proseguì il suo cammino tra alti e bassi, e per svariati anni l’evento subì una perdita di partecipazione e d’interesse da parte dei creatori di carri, dovuta a strascichi di vecchie polemiche, e di riflesso anche la comunità Budonese si stava appassionando sempre meno ad essa, vista la mancanza all’evento di alcune borgate assai importanti per la buona riuscita della manifestazione sia per quantità che per qualità dei carri allegorici.

Nonostante gli sforzi dell’ente proloco per risollevare l’interesse per la manifestazione e placare allo stesso tempo le polemiche e i malumori, la premiazione in denaro restava sempre una bomba ad orologeria, come la brace sotto la cenere;in qualsiasi momento, difatti, poteva accendersi nuovamente, andando a riaprire vecchi rancori. Ecco allora che a metà degli anni ’90 si decise di sospendere la premiazione dei carri migliori, sia simbolica sia economica.

Solo nel 2007 con l' allora direttivo della proloco, si decise di dare una svolta, ricucendo i rapporti con i gruppi carnevaleschi “storici”, e reinserendo ciò che era la premiazione del carro migliore, più un contributo in denaro ai primi tre carri, dando così nuova linfa vitale al “Coriandolo d’oro”, fu proprio in quegli anni che iniziò una nuova stagione positiva per la manifestazione, grazie al rientro dei vecchi gruppi storici e la formazione di quelli di nuova generazione, dove oltre ad aumentare il numero dei carri, aumentò anche la qualità degli stessi, ma per evitare polemiche si pensò a una giuria “esterna” composta anche da noti giornalisti e  alcuni avvocati provenienti da fuori città, al fine di rendere più imparziale possibile il giudizio finale. Sembrava fatta!

Tale linea politica vincente, fu portata avanti anche nel 2011 circa, poi quando la ragione e la non ragione, tra “carristi e “giurati”, si scontrarono nuovamente, a distanza di anni, si ebbe un’altra scarica elettrica che prendeva il nome di “polemica”.

Dal 2012 in poi, la premiazione fu abolita, seppur con rammarico, proprio per sradicare definitivamente quella pianta denominata “polemica”, che spesso e volentieri era nutrita dalla liquidità del “vil denaro”. L’anno dopo, si optò per la consegna di una “targhetta” simbolica per tutti i partecipanti, dove tutti vincevano e nessuno perdeva; ma la cosa non durò molto.

A tutt'oggi la pro loco, ha deciso di seguire tale linea soft e utilizzare i fondi stanziati per tale evento in due modi: Il primo per l’acquisto di materiale di consumo, quali coriandoli, stelle filanti e altro, dati in forma gratuita a tutti i carri allegorici e ai gruppi mascherati; Il secondo modo riguarda l’intrattenimento sia musicale che gastronomico; Con il fine ultimo, di evitare polemiche tra i partecipanti, e ponendo in essere quella che in Inglese è definita “Comfort Zone”.

Forse sarò nostalgico ma quanto era bello il “vecchio” CORIANDOLO D’ORO "a premi", quella sana competizione che ci dava la carica per lavorare fino a notte fonda per poter vincere almeno una volta l'ambito premio; La competizione, come ho detto altre volte, è il motore dell’esplorazione di sé e la culla dell’amor proprio. Quella che fornisce gli strumenti per comprendere il significato del vincere e del perdere.

Perchè bisogna imparare da piccoli a perdere e vincere “bene”: in entrambi i casi, per capire che si tratta di due eventi normali, che facilmente si alternano e non devono mai diventare né esaltazione, né tragedia. Le polemiche nelle competizioni si trovano in ogni campo, dal campionato di serie A, al campetto dell’oratorio, dalle gare di judo dei bambini al ping pong di casa, ma non per questo si eliminano le premiazioni.

 Infondo se si è deciso di chiamarlo "Coriandolo d'oro" un motivo ci sarà... !


Caserma dei Carabinieri

Giovedì 8 febbraio 2018 alle ore 10.30 si è tenuta presso la caserma dei carabinieri di Budoni, la cerimonia d’intitolazione della Stazione all' appuntato Pietrino PIU dell'Arma dei Carabinieri M.A.V.M., nato a Pozzomaggiore (SS) il 9 dicembre 1926 - deceduto in località "Sa e Manza", agro del Comune di Nuoro, proprio l'8 febbraio 1966.

Fu insignito della Medaglia d'Argento al Valor Militare "alla memoria" con la seguente motivazione:

"Già distintosi in precedenti operazioni contro il banditismo, si offriva quale guida a pattuglia incaricata di controllare un rifugio di abigeatari e latitanti. Nella fase culminante dell'azione, con generoso impulso e cosciente sprezzo del pericolo, affrontando da solo, allo scoperto, un pericoloso ricercato responsabile di omicidio, cadeva sotto raffica di mitra repentinamente esplosagli contro dal malvivente. Mirabile esempio di predare virtù militari e di dedizione al dovere spinta fino al supremo sacrificio".


La Casa Cantoniera

La Casa Cantoniera di Budoni fu edificata intorno all’anno 1875 e insieme alla vecchia chiesetta è il più antico edificio del paese.

La casa cantoniera è un’immobile, di proprietà demaniale e gestita dall'ANAS, caratterizzato dal tipico colore rosso pompeiano

Prende il nome dal “cantone” gestito dai "cantonieri", gli operai addetti alla manutenzione delle strade, che per esigenze di servizio, avevano necessità di alloggiare sul luogo di lavoro. 

Tante famiglie si susseguirono negli anni, ricordiamo fra le prime quella di Giovanni Pietro Punzeddu, sposato con una Cocciu Battistina, che nel 1887 era già operativo come cantoniere a Budoni poi le due famiglie Meloni e Careddu negli anni 1932 e altri ancora;

all’interno della “Casa” normalmente vi abitavano sempre due di cotonieri con rispettiva famiglia, questo perché si dividevano la zona di lavoro,(il cantone appunto), un operaio andava dalla Cantoniera di Budoni verso nord in direzione Berruiles e l’altro verso sud in direzione Tanaunella;

Se pensiamo che da Cantoniera a Cantoniera intercorrono circa 8 km, ogni cantoniere gestiva 4 km circa di strada, andando ad incrociarsi con il cantoniere di un altro edificio con esso confinante.

Distribuite su tutte le strade statali storiche italiane, anche quella di Budoni all'interno custodiva i mezzi e le attrezzature utilizzate per espletare le operazioni di manutenzione delle strade statali.

Ma a Budoni gli stessi cantonieri in passato non avevano dei mezzi meccanici propri e capitava talvolta che il legname raccolto lungo la strada, fosse portato a braccia verso la Casa, dove veniva riutilizzato dagli stessi come legna da ardere.

 

La mansione primaria del cantoniere era di tenere pulita e in ordine ponti e strade, nei bordi tagliando le frasche e al centro sistemando “s’istradone” che all’epoca non era asfaltato ma coperto da ghiaia, transitata il più da carri a buoi, cavalli, asinelli e piccoli calessi;

Solo in seguito arrivarono le autovetture, intorno al 1940, (per esattezza la prima automobile fu una FIAT Balilla di ziu Manlìu Demuru), e nel 1951 la strada fu asfaltata.

Dall’Ottocento, la figura del Cantoniere ha avuto notevoli evoluzioni. L’Anas, ne ha fatto l’emblema stesso della sua esistenza.

 

L’Azienda che da 75 anni si occupa di costruire e di mantenere le strade dello Stato in Italia, anche oggi non può fare a meno dell’opera quotidiana, essenziale e produttiva dei Cantonieri. Quasi due secoli di storia separano le prime figure di questi operatori stradali dai moderni Agenti della Viabilità Nazionale. 

Ora l’edificio poiché bene demaniale sarà dato in mano alla Regione Autonoma della Sardegna ed essa valuterà il daffarsi; ma tutti noi ci auspichiamo che l’edificio possa essere affidato al Comune di Budoni per far sì che non diventi un rudere al centro del paese come tanti altri che fanno bella mostra in via Nazionale e non solo. 

La strada della vita attraversa il presente e non il domani. A volte è larga altre volte stretta. Corre in salita oppure in discesa ma va sempre avanti in direzione dell'oggi.



Gruppo Folk "San Lorenzo"

Il Comune Budoni è stato da sempre una terra di confine tra la bassa baronia e la gallura (infatti alcune frazioni parlano il logudorese mentre altre parlano il gallurese) San Lorenzo, una delle 24 frazioni del comune, si presenta come un agglomerato di case collocate su una collina, esse si dispiegano principalmente sulla strada primaria e via via si diramano verso la campagna (conta circa 350 abitanti residenti); alla periferia è presente una piccola chiesa risalente alla fine 1300 circa e un piccolo cimitero, sono presenti anche i resti della civiltà nuragica con la presenza di una domus de Janas nella parte più alta del paese e il nuraghe Conca e Bentu nella frazione di Solità, poco distante da San Lorenzo.
Da poco entrati a far parte della nuova provincia Olbia-Tempio, siamo entrati in Gallura con un ricco bagaglio culturale della baronia, in quanto Budoni fino al 1958 faceva parte del comune di Posada, dal quale si è poi distaccato formando un comune autonomo.
Il primo passo importante del gruppo folk è stato quello di ricostruire fedelmente l'abito tradizionale del proprio paese e tale lavoro è stato semplificato dalla presenza di alcuni esemplari risalenti alla fine dell'800 che erano stati conservati gelosamente dalle persone anziane del paese.
Nel 1976, dopo essere stati preparati da alcuni anziani del paese , un gruppo di giovani decide di formare un vero e proprio gruppo folk e di affrontare le piazze della Sardegna facendo così conoscere i propri costumi e i balli tipici.
L'odierna formazione del gruppo folk è costituita dalla terza generazione che è subentrata dopo le precedenti. L'attuale gruppo è composto da giovani ragazzi di età compresa tra i 10 e 22 anni.
Sin dai primi anni di vita il gruppo folk oltre alle esibizioni all'interno dell'isola si esibisce in diverse parti d'Europa. Le principali tappe sono state : Svizzera,Francia,Austria,Siena (per 2 anni consecutivi) Roma e svariati circoli di emigrati sardi (gli ultimi visitati sono: circolo dei sardi di Ginevra e circolo 4 mori di Ostia) e in Svizzera a Crans durante la "festa della strada" dove vengono messi in mostra tutti i prodotti tipici svizzeri .
Punto di forza del gruppo, da diversi anni, è la partecipazione all'Europeade del folklore (manifestazione caratterizzata dalla presenza di centinaia di gruppi provenienti da ogni parte dell'Europa e che ogni anno si svolge in una nazione europea diversa).
Il gruppo ha infatti partecipato alle edizioni svolte a Orsen in Danimarca, a Riga in Lettonia, a Quimper in Francia del nord, e a Zamora in Spagna.
Per Pasqua a Budoni si svolge S'Incontru, la Madonna e il Gesù vengono portati a Budoni da due frazioni diverse che cambiano di anno in anno. Durante la manifestazione è presente anche il gruppo folk che segue la statua della Madonna in processione e che esegue due balli: il primo è "su passu seriu", a carattere strettamente religioso, è un ballo che viene caratterizzato dalla presenza di una serie di 3 inchini che simboleggiano il Padre il Figlio e lo Spirito Santo; il secondo ballo invece si svolge dopo l'incontro tra la Madonna e il Cristo risorto ed è "Su Ballittu"
I nostri balli sono quelli tipici della bassa baronia e sono su ballittu, su ballu brincadu, su passu seriu e su dillu e vengono accompagnati dall'organetto diatonico.
Da circa 4 anni siamo diventati associazione culturale, con lo scopo di ricercare informazioni storiche relative alle nostre tradizioni, organizzare manifestazioni e continuare a far conoscere i nostri balli. Durante l'inverno impartiamo lezioni di ballo sardo a giovani provenienti da tutto il comune garantendo una continuità alla nostra tradizione.

COSTUME MASCHILE

  • SA CAMISA (camicia)
    Viene realizzata con tela bianca; finemente plissettata nel collo nelle spalle e nei polsi, lavoro che servirà a rendere la camicia molto ampia e garantirà libertà nei movimenti. Generalmente la plissettatura è costituita dalla tipica lavorazione chiamata "s'alchittu" che poche persone sanno oggi realizzare; nel colletto, nelle spalle e nei polsi sono inoltre presenti dei ricami fatti a mano che cambiano a seconda dell'abilità della mano che li realizza.
  • SOS CALZONES (pantaloni)
    Anche questi di tela bianca, molto ampi e con una lunghezza che arriva al di sotto del ginocchio.
  • SU CASSU (gilet)
    Di velluto nero e a doppio petto viene adornato lungo i bordi,giromanica e girocollo da un nastro di raso rosso al quale seguono poi tre o più file di ricamo ciascuna di colore diverso; la prima a punto croce serve per fermare il nastro di raso e le altre a punto catenella.
  • SAL RAGAS (gonnellino)
    Originariamente di orbace (furesi) oggi vengono realizzati per la stragrande maggioranza in panno di lana nero a causa della scarsa produzione di orbace, che viene lavorato solo in pochi paesi della Sardegna. E' costituito da ampie pieghe che gli danno quella caratteristica ampiezza nella parte inferiore; il cavallo è costituito da un rettangolo di stoffa nera "ispacca troddiu" che unisce i 2 lembi del gonnellino, formando un pantalone . Il gonnellino termina con una balza di velluto nero di circa 5 cm di altezza e con una bordatura di panno di lana rosso.Le tasche sono bordate con panno di lana rosso e ricamate con file di punto a catenella di diverso colore come il gilet.
  • SAS CALZITTAS (ghette)
    Anch'esse un tempo in orbace, sono di panno di lana nero, e nella parte che ricopre la scarpa bordate con panno di lana rosso; fermano sos calzones all'altezza del ginocchio.
  • SA CHINTOGLIA o ZINTA (cinta)
    Di cuoio nero finemente lavorato con disegni a rilievo o a intaglio talvolta presenta il raso a motivi floreali; è sempre bordata di rosso.
  • SA BERRITTA (copricapo)
    Anche questa in passato in orbace oggi viene realizzata in panno di lana. E' il copricapo tipico della Sardegna.

COSTUME FEMMINILE

  • SA CAMISA (camicia)
    Come quella dell'uomo viene realizzata con tela bianca finemente plissettata nel collo (molto largo) e nei polsi. E'caratterizzata dalla lavorazione a tela tagliata nella "pettorina" ( parte anteriore della camicia) e nei polsi con disegni floreali che sono l'elemento fondamentale di tutto il costume femminile. Il disegno originale è composto da 5 colonne verticali di ricamo al di sopra delle quali troviamo due colonne orizzontali. Ai lati della "pettorina", per tutta l'altezza della camicia, sono presenti una serie di pieghe di circa 1 cm.
  • SA SUTTANA (sottogonna)
    Di tela bianca, molto ampia e rifinita nella parte inferiore con delle balze di pizzo.
  • CASSU GROGU (gilet)
    Di panno di lana giallo o arancione, bordato da nastri di raso con motivi floreali; copre la camicia nella parte posteriore e va a infilarsi sotto la gonna.
  • SU CORITTU (corpetto)
    Più corto di "su cassu grogu" viene chiuso davanti con un nastrino e ha la funzione di sorreggere il seno. Bordato da diversi nastri, può essere di diverso materiale : terziopelo, broccato, velluto o velluto ricamato.
  • SU ZIPPONE (giubbino)
    Giubbino corto nella parte posteriore, permette la visibilità dei due gilet sottostanti, presenta delle maniche molto ampie che vengono chiuse nei polsi con i caratteristici bottoni sardi. Bordato con nastri di stoffe colorate, può essere di terziopelo o broccato .
  • SA UNNEDDA (gonna)
    Anticamente in orbace viene oggi realizzata in panno di lana nero o marrone, è adornata con una balza di nastri colorati. Le pieghe vengono fatte una per una e successivamente viene messa sotto pressa per qualche mese in modo da ottenere un effetto plissettato che duri nel tempo.
  • SA FALDA (grembiule)
    Può essere di diversi materiali: terziopelo, broccato o seta di colori scuri che vanno dal viola scuro al blu al nero. Generalmente nella vita presenta un nastro colorato mentre nelle parte bassa viene rifinita con nastrini dorati. Quella di seta viene generalmente ricamata a mano con fili di seta colorati e rappresenta motivi floreali.
  • SU MUCCADORE (fazzoletto/copricapo)
    E' di stoffa nera o marrone scuro e presenta motivi floreali ricamati a mano. E' di forma quadrata e viene ripiegato trasversalmente, formando un triangolo; viene chiuso nel mento oppure viene lasciato libero. Viene fermato alla crocchia realizzata nella parta alta della testa attraverso una spilla d'oro.

I GIOIELLI

  • SOL BUTTONESE(gemelli)
    Tipici di tutta la Sardegna nel costume maschile servono per chiudere i polsini e il colletto.
    Nel costume femminile servono a chiudere i polsini de "su zippone"; poi c'è l'altro tipo più grande che vengono messi sulla "pettorina" della camicia. Si dice che rappresentino la fertilià della donna, infatti la loro forma riproduce quella del seno femminile.
  • S'ISTELLA (la stella)
    E' un particolare ciondolo, tipico di questa zona, che viene messo al collo delle donne con un nastrino di velluto nero.
    A forma di stella viene prodotta con la tipica lavorazione della filigrana; al centro sono raffigurati due cuori simbolo di amore e fratellanza.
  • SA CARA E CORADDU (cammeo)
    E' un cammeo di corallo, che talvolta può sostituire la stella oppure si presenta come spilla e viene messo sulla camicia o sul "muccadore" (copricapo femminile).
  • SU FREMMAGLIU (spilla)
    E' una spilla in oro antico, di valore inestimabile, di varie forme e misura, presenta al centro una pietra di acqua marina e diversi brillanti. Spesso si utilizzano le riproduzioni in quanto le originali vengono gelosamente custodite .
  • SA COLLANNA DE CORADDU(collana di corallo)
    Tipiche in quasi tutta la Sardegna, può essere a una o più file; con corallo lavorato a forma di perla o a forma irregolare.
  • SOS PINDINASA (pendenti/orecchini)
    Le più caratteristiche sono quelle a forma di goccia (di corallo) e quelle a forma di ali di farfalla con un lungo pendente (in oro).
  • SA FEDE SALDA (fede sarda)
    E' la fede che veniva utilizzata in questa zona. Presenta una placca rettangolare sulla quale venivano incise le iniziali del marito; ai lati stretti della placca sono presenti due cuori.
  • SU SABATZU (spilla contro il malocchio)
    Veniva e viene tuttora donata ai neonati e viene fissata sulla carrozzina. Non è una spilla tipica del costume, ma talvolta, in mancanza di altri gioielli, poteva essere indossata.

"Essere stati scelti per la croce astile è stato un grande privilegio, quell'anno furono posizionate altre croci, una sull'altopiano di Asiago che ospita il paese gemellato con Budoni,  precisamente Rozzo,  le altre croci si trovano sul monte Cervino e una al centro Italia ( ora non ricordo bene la località. Altre due croci su trovano al Polo sud e al Polo Nord, una spedizione di uomini riuscì a portarla li e a dire messa,  sotto l'altare , nei ghiacci furono seppellite  delle teche con i nomi dei paesi che ospitano le croci gemelle, quindi anche Budoni che venne ricordato e benedetto in quel momento storico. Quindi bisogna guardare con rispetto a quella croce che ha il suo anniversario il 14 luglio.."  

La festa di San Pietro

( Chiesa: costruzione risalente ai primi del XIV secolo).

La festa di San Pietro ha destato fin dai suoi albori un particolare interessamento da parte di moltissimi fedeli.

Si narra che arrivavano con i carri, a piedi, già dal giorno prima che iniziassero i festeggiamenti per vivere ed assaporare intensamente la magia dei giorni di festa. Si trascorreva la notte intorno ad un gran falò mangiando frattaglie arrosto del bestiame macellato e quanto di buono ogni novenante aveva portato con se. Oltre ai novenanti , che partecipavano attivamente alla buona riuscita della festa, bisognava avere un occhio di riguardo ai numerosi mendicanti (sos dimandones) e ai ricercati (sos bandidos) che arrivavano numerosi e per tutta la durata dei festeggiamenti potevano sfruttare il così detto “Diritto d’asilo” . Il “Diritto D’asilo” non era altro che una antica nozione giuridica per mezzo della quale una persona perseguitata poteva essere protetta da altra autorità sovrana in questo caso dalla chiesa e non poteva essere toccata per nessunissima ragione: diritto abolito in data 9 aprile 1850 con Legge Siccardi che abolì anche il foro ecclesiastico. L’Episcopato sardo protestò energicamente contro questa Legge e subito dopo l’Arcivescovo si Sassari Varesini fu arrestato per aver emesso una Circolare contro tale legge e fu condannato ad un mese di carcere. Anziani raccontavano di aver sentito raccontare dai vecchi del luogo che forze dell’ordine che arrivavano da Siniscola o da Nuoro per l’occasione, e ricercati “Bandidos” bevevano e discutevano assieme in “sas Barraccas”. Regole inviolabili, condizione conosciuta e rispettata da sempre e da tutti... (contributo di Pierino Bacciu)

 



Monumento ai caduti di Budoni - Piazza Giubileo

L'imponente opera in marmo di Orosei del peso di quaranta quintali, è opera di Antonio Loi, scultore di Belvì, e raffigura la deposizione del Cristo dalla croce: il dolore della Madonna rappresenta la sofferenza di tutte le famiglie che hanno perso in battaglia il proprio congiunto. Accanto alla scultura, una stele, sulla quale sono scritti i nomi dei caduti nelle due guerre mondiali, giovani soldati partiti per il fronte dai borghi di Budoni, 38 nomi impressi sul marmo (12 vittime del 1945 e 26 del 1915/18).

L'opera è stata inaugurata il 6 novembrel 2007 dall'allora sindaco Gianni Nieddu, nel 2020 la scultura è statà illuminata con il tricolore dall'amministrazione Porcheddu.

Nomi dei caduti in aggiornamento:

Foto e video di Bustianu Willer

Lo scultore Tonino Loi nasce a Belvì il 6 - 12 - 1957, nell' '82 fa la sua prima personale a Sorgono, ne seguiranno tante altre collettive in tutta l'isola; l'incontro con Eduard Vincent noto scrittore francese, sarà determinante per la sua crescita, trasferitosi in Francia inizia a girare il mondo e dopo 10 anni di mostre internazionali, decide di tornare con nuovi progetti in sardegna, collaborando con i migliori architetti;

La poetica di Giovanni Antonio Sulas lo ispira per la riscoperta della tradizione agro-pastorale e alla monumentalizzare elementi della tradizione di ogni comune della Sardegna.

Attualmente collabora con vari circuiti museali e siti archeologici con l'obbiettivo di divulgare con le sue opere la grande tradizione ancestrale di questa meravigliosa isola di Sardegna.

Altri progetti sono in cantiere proprio a Budoni...


Pasca'e Nadale ( Natale )

Le temperature a dicembre erano solitamente rigide, ma quell'anno lo erano state in modo particolare. Le piante decidue si erano spogliate delle loro chiome e avevano assunto l'aspetto di figure scheletriche e non fosse per quei cisti e lentischi che svettavano dai campi come mazzi di fiori, le campagne sarebbero apparse desolate e brulle.
Negli anfratti ombrosi e tra le radici scoperte degli alberi si stendevano tappetti di muschi e di felci, e sui dorsi delle colline emergevano i peri selvatici, gli alaterni e le querce che nei punti più esposti si erano piegate al volere del maestrale, che di frequente soffiava le sue ire. I cespugli di mirto disseminati qua e là, sembravano offrire ai passanti le bacche ormai mature.
Le piogge stagionali avevano creato dei rigagnoli di acqua, che scorrendo tra i campi, andavano a irrorare anche i punti più impervi, quei punti che sarebbero diventati il luogo ideale per ospitare le spore dei funghi che di lì a poco sarebbero stati pronti a levar il capo al primo sole. Nei camini delle case si attizzavano i fuochi, per sopperire al freddo che incalzava sempre più e dai comignoli si levavano volute di fumo che diffondevano nell'aria l’odore della legna bruciata; l'odore del fumo a volte si frammischiava al profumo del pane ( “ sas cozzulas “) che qualche massaia cuoceva al camino “ in sa zidda “ o “in sa cadrija”.
Alle prime luci del mattino, alcuni uomini s'incamminavano per i sentieri in direzione degli ovili, per foraggiare gli animali e per la mungitura. Si sentiva in lontananza il tintinnio dei campanacci e il belare degli agnelli appena nati, e il latrato dei cani che radunavano il gregge.
Qualcuno, tra le persone anziane, osservando il clima di quei giorni aveva intravisto dei segni a posteriori, sostenendo che la situazione climatica che si era verificata nei primi giorni di dicembre, si sarebbe ripetuta e protratta nei primi quaranta giorni e una settimana del nuovo anno; C'era tanta convinzione in queste cose che sembrava davvero che accadessero. Ma effettivamente erano soltanto credenze popolari talmente radicate nella mente di alcune persone, che queste riuscivano a trovare riscontri nella realtà.
Il freddo pungente e qualche fiocco bianco che di tanto in tanto librava nell'aria, prospettavano per quell'anno il tipico scenario nevoso del Natale.
Io avevo aspettato il Natale dal mese di novembre, ma era soltanto ai primi di dicembre che avevamo potuto iniziare gli addobbi dell’albero, precisamente dal giorno dell’Immacolata.
Mio padre, che lavorava in quel periodo alla forestale ci aveva portato un arbusto di pino. Il Corpo forestale di Torpè, autorizzava in quel periodo di fare dei tagli quasi di potatura alle piante, e di tagliare quegli alberelli che faticavano a crescere. Venivano quindi messi a disposizione dei paesani, molti rami e arbusti di pino, e mio padre ne aveva scelto uno per noi.
Mia madre, quel giorno, prese un secchio e dopo averlo riempito di terra e rivestito di carta, vi infilò il tronco del nostro alberello, per tenerlo saldamente eretto. Io e mia sorella lo avevamo addobbato con caramelle e mandarini che avevamo legato con dei fili, e qua e là ci appendevamo anche qualche angelo e qualche stella di cartone.
Poi andammo a prelevare il muschio dalle rocce e dai tronchi delle piante, stando attente a tagliarlo in modo compatto. A volte bastava infilare la mano e veniva via con facilità, altre volte dovevamo fare ricorso al coltello.
Dopo aver sistemato dei fogli di giornale ai piedi del nostro alberello, disponemmo il muschio, e su questo la capanna in legno e le statuine in gesso raffiguranti la Sacra Famiglia, i re Magi, qualche pastorello e qualche pecorella.
C’era la massima cura nel disporre le statuine. Facevamo i sentieri con sassolini, i laghetti e i fiumi con frammenti di specchio, i ponticelli con pietre ricoperte di muschio, e qua e là v’infilavamo delle felci a simboleggiare gli alberi.
Il 25 dicembre andammo alla messa di mezzanotte. La chiesa era gremita di fedeli. C'era freddo, la navata era illuminata dalla luce dei lampadari a gocce di cristallo e il mio sguardo fu catturato dalle luci che erano state disposte intorno al presepe. Il prete celebrò la funzione religiosa e nel momento dell’eucarestia le donne avevano intonato i canti di Natale: “ Astro del Ciel ” e “ Deus ti salvet Maria ” al termine della messa c'era stato il rituale con l'incenso, il prete aveva fatto dondolare l'aspersorio in più direzioni, verso tutti i fedeli, diffondendo un fumo leggero, che aveva il significato di allontanare le energie negative in preparazione del nuovo anno. Alla fine della messa potemmo ammirare da vicino il presepe che era stato preparato da giorni prima, poi il prete prelevava la statua del Bambinello Gesù e la porgeva in avanti affinché, noi uno dopo l’altro la baciassimo, e con un panno sulla mano destra puliva di volta in volta la parte che veniva a contatto con le nostre labbra. Successivamente ci scambiavamo gli auguri.
L’indomani il giorno di Natale, mia madre, di primo mattino, dopo aver riordinato la casa mise sul tavolo la tovaglia della festa e i copriletto "buoni" sui letti, poi infilzò negli spiedi l’agnello e “ su trattalliu” e li mise ad arrostire lentamente nel camino.
Splendeva nel cielo un tiepido sole, causando in me la delusione di non poter ammirare il paesaggio innevato che tanto avevo sperato di vedere, ma per fortuna l'euforia di quel giorno di festa cancellò in me qualsiasi sensazione negativa.
Al suono della campana, la gente vestita a festa si radunò in chiesa per assistere alla messa. Finita la quale dopo i consueti auguri sul luogo, le persone andarono in casa di parenti, amici e conoscenti per augurare un buon Natale.
Un attimo prima di pranzo io e i miei fratelli avevamo messo sotto il piatto di nostro padre le letterine a Gesù Bambino che nei giorni precedenti avevamo scritto a scuola sotto il controllo della maestra. Erano bellissimi cartoncini con colori molto tenui impreziositi da polverine d’oro e d’argento, raffiguranti la Natività, presepi e scene natalizie; erano le nostre dichiarazioni di affetto ai nostri genitori e le promesse di comportarci sempre bene con tutti. Mio padre vide il suo piatto sollevato ma fece finta di non accorgersene, poi come ogni anno simulò di individuarle casualmente, le lesse una per una con nostra grande soddisfazione e regalò ad ognuno qualche monetina. Noi eravamo più che felici.
La sera dell’ultimo giorno dell’anno si sentiva il tintinnio de “ sas marrazzeddas “, i campanacci che i ragazzini suonavano per le vie del paese, per cacciare via l’anno vecchio. Andavano di casa in casa agitando rumorosamente le campane e qualcuno offriva loro “ sas cattas de pumuderra” (frittelle di patate), “sa vita” ( piccoli pani, del tipo pane loriga ) appositamente preparati, oppure denari, o qualcos’altro.
Era usanza che la sera di San Silvestro ci si riunisse nelle case in attesa della messa di mezzanotte.
Ricordo che anche a casa mia si riunivano alcuni parenti. Mio padre metteva tanta legna nel fuoco, e mia madre si prodigava a scaldare “sas cozzulas” e ad arrostire con lo spiedo il formaggio e le salsicce, e le castagne mettendole sotto la cenere mischiata con la brace. Dopo aver mangiato si giocava a “tombola” usando come segnalini i chicchi di granturco. Ci si sedeva sulle sedie vicino al camino, intorno al tavolo e sui letti. Anche noi “piccoli” avevano la propria cartella che veniva controllata da qualche adulto.
Di tanto i numeri erano accompagnati da nomignoli: pilo (1), gambe delle donne (77). Era bellissimo per noi bambini quando si faceva “ cinquina ” e il massimo quando si faceva “ tombola ” e si ritiravano tutte le monete del banco.
A volte qualcuno di noi bambini si addormentava e veniva adagiato sul letto, incurante delle voci che si accompagnavano all’estrazione dei numeri e alle esclamazioni concitate di chi faceva cinquina o tombola.
Quando scoccava la mezzanotte, qualcuno che aveva il fucile sparava dei colpi in aria, in segno di festeggiamento, al cui rumore si accompagnava il tintinnio di qualche campanaccio e il latrato dei cani spaventati.
L’indomani, dopo la messa, molte persone andavano di casa in casa per fare gli auguri di buon anno.
“Buon principio e meglio fine” ci aveva suggerito di dire mia madre. Io non avevo afferrato il vero significato delle parole, però notai che gli adulti lo apprezzavano e ne ero compiaciuta.
All’insegna degli auguri iniziava così il nuovo anno e con esso riprendeva il ciclo degli eventi legati alla tradizione e se ne tramandava nel tempo la memoria.
Questo è il Natale vissuto tanti anni fa. Aspettavamo con trepidazione il momento della Natività, sentivamo Gesù Bambino proprio come uno di noi... povero, infreddolito, reale e non effimero, ma proprio come uno di noi ... d'altronde anche noi eravamo dei piccoli “ Gesù Bambino” con la pace e la speranza nel cuore, e innocenti e puri... come lo sono tutti i bambini del mondo.
Racconto di Giuliana Bacciu


Su Fogulone e Santu Antoni ( Il falò di Sant’Antonio )

Su Fogulone e Santu Antoni ( Il falò di Sant’Antonio )
Erano passati pochi giorni dall’Epifania e noi bambini non avevamo ancora consumato le caramelle, che già si prospettava l’evento festoso e religioso di " Su fogulone de Sant'Antoni" che avveniva la sera del sedici gennaio.
Era un rito antico e misterioso di origine precristiana in onore di Sant’Antonio Abate, che trovava riscontri, anche in molti altri paesi della Sardegna. Tale rito, dopo le cerimonie religiose culminava con l’accensione e la benedizione di gigantesche cataste di legna che ardevano per quasi tutta la notte.
E’ difficile capire l’origine di tale rito. Un rito che unisce sacro e profano, cristianesimo e paganesimo.
Un’antica leggenda narra di come Sant’Antonio, abbia portato il fuoco sulla terra, quando ancora nel mondo c’erano temperature glaciali e i cibi venivano consumati crudi.
“Cando in su mundu no esistìada ancora su fogu, sos omines chirìana dimandhare ajùdu a Sant’Antoni, chi fidi un’eremida solitàriu chi abitaede in sas grottas iscuras. Una die, sos omines fini andados a chilcare su santu. Caminendhe, caminendhe sono arrivados a sas grottas, inumbe istaìada e l’ana jamàdu:”Sant’Antò, Sant’Antò!.” “Chie sezis?” aìda rispondidu su santu. « Semus zente chi tenimus meda frittu e semus senza fogu”. “Mancu jeo nde tenzo, ite bos podo faghere?”.”San’Antò, bos dimandamus de nde attìre unu pagu, dae chi bois ìschides inumbe lu leare”. Su santu lis aìad rispostu “Ma l’ischides in umbe est su fogu? Est in s’ifferru e chie àndada no pòdede pius torrare”. “ Est pro cussu, chi semus bènnidos a lu dimandare a unu santu che a fostè”.
Pianu, pianu bis sono revintidos a che lu cunvìnchere. “Bois aspettade inoghe finzas chi no torre”. Santu Antoni s’est incaminadu peri sas grottas de su mundu, cun d’una ferula e unu polcheddu iffattu( chi fidi unu diaulu travestidu a polcu). “Umbe est domo tua?”. Aiada dimandadu su santu a su polcu. “Fàghemi istrada e guai a tie si ndhe cumbinas calcuna de sas tuas”. Borrontolende e a murrunzu, su polcheddu che lu poltada finzas a s’ ifferru dae sos compares de fogu.
Su santu bùsciada in sa janna e dae in’intro li rispondhene a boghes mannas. “Chie dialu est busciende ? » . Santu Antoni dàede un’ispunzonada cun sa ferula a su polcu, e cussu macu e no sabiu s’est postu a ticchirriare: dae in’intro ana connòtu sos ticchirrios, ana abbeltu sa janna e ana bidu su santu. “Andhatìche dae inoghe, chi no ses de sos nostros”. E li aina tancadu sa janna de s’iferru in cara. Perintantu, su polcheddu chi fid intradu ain’intro aìad’incuminzadu a fàghere un’abbolottu mannu, ticchirriende e nendhe chi senza Sant’Antoni no bi abbarràede: ma fidi fattendhe de tottu po che faghere intrare su santu a s’fferru. A unu celtu puntu Luciferu, aìad nadu a Sant’Antoni: ”Beni ainoghe in’itro, a ti che leàre su polcu, chi cussu senza e te no b’ìschidi istare”. Sant’Antoni, fid intradu in s’ifferru, e si fidi postu a ispunzonare s’animale cun sa ferula e cussu aìda cuminzadu a nde fàghere de donzi calidade. “Ma, a che la finìdese bois duos?”. Lis naràene sos diaulos. Ma cussos nudha, peus de prima. “Bo che andàdes o bo che devimus bogare de malu modu?”. Sighìana a nàrrere sos diaulos.
« Como chi so inoghe, mi faghides caentare assumancu unu pagu, o no?”. A’ad nadu su santu, tocchende cun sa ferula su fogu. Ma unu diaulu ispassientidu che li aìda leadu su ramu de ferula e bi che lu aìda imboladu in su fogu. Fidi propiu su chi cherìada su santu: sa ferula lèada sùbidu fogu, ma brùsgiada pianu, pianu in’intro e no s’ìdede a fora. Su santu aìad poi incùminzadu a beneìghere a manca e a dresta nendhe: “Torràdemi su bastone e mi c’andho”. Bastàda chi si che sèrede andhadu, e sos diaulos bi lu an’torradu.
Sant’Antoni cun su polcu si che fin andhados e candho sono arrivados a s’essìda , aìana agatadu sos omines infrittulidos e a s’iscuru. “Semus torrados e appo ‘attìdu su fogu”. Aìad nadu su santu, e poi aìad’incumìnzadu a inchèndere unu fogheddu cun sa linna de listìnchinu: “ Jeo bos appo attìdu su fogu, bois devìdes imparare a lu usare’ene, ca chin su fogu no b’ada de brullare”. Eppoi aìda fattu una rughe chin su bastone, ispàlghende su fogu in sa terra. ”Fogu, fogu peris su logu, peri sa terra, peri sa idda in donzi carrera un’isindidda” Aìana incuminzadu a cantare tottu in limba antiga, e cuntentos si fin postos a ballare inghiriendhe su fogu.
Dae tandho si fid diffusu su fogu in su mundu e sa zente aìad’imparadu a l’usare’ene, e pro rengraziamentu, d’onzi annu, in medas logos, benin’inchèsos sos fogos de Sant’Antoni.”
Il Santo, impietosito dalle continue richieste degli uomini di aiutarli a portare il fuoco sulla terra, s’incamminò per le viscere del mondo con un bastone di ferula e un maialetto (che rappresentava la tentazione del diavolo). Il santo fu condotto dal maialetto all’ingresso dell’inferno, ma quando i diavoli gli aprirono la porta, non riconoscendolo come loro simile, lo cacciarono via, mentre il maialetto, che era riuscito a entrare, scatenò un gran putiferio, sicchè Lucifero spazientito, fu costretto a chiamare il santo affinché andasse a riprenderselo. Quando questi entrò nell’inferno, anziché calmare l’animale lo stuzzicò ancor di più col bastone nodoso di ferula in modo da scatenare più trambusto. Uno dei diavoli, innervositosi, gli strappò il bastone e lo buttò nelle fiamme. Era quel che voleva il santo: poiché il bastone di ferula avendo un midollo tenero prende subito fuoco, ma brucia lento e non si vede. Con l’obbiettivo di suscitare confusione, il santo iniziò a benedire da tutte le parti dicendo che soltanto se gli avessero restituito il suo bastone avrebbe smesso di benedire e sarebbe andato via. I diavoli pur di liberarsi di lui e delle sue benedizioni glielo resero. Il santo aveva raggiunto il suo obbiettivo. Quando ritornò in superficie, trovò gli uomini che lo attendevano, tremanti di freddo e avvolti nel buio della notte. Sant’Antonio disse che aveva portato loro il fuoco, ma che dovevano imparare a usarlo nel giusto modo. Detto ciò, fece una croce col bastone e il fuoco si sparse sulla terra, diffondendo luce e calore. Gli uomini ballando intorno al falò iniziarono ad intonare una canzone in sardo antico: “Fogu, fogu peri su logu, peri sa terra e peri sa’idda in donzi carrera un’istintidda. Da quel giorno il fuoco venne usato in ogni parte della terra.
Per ricordare l’evento di cui si parla nella leggenda, ogni anno, in molti paesi della Sardegna (tra i quali Brunella) e della penisola italiana e anche in altre nazioni come la Spagna (dalla quale è stato sicuramente importato il rito), vengono accesi dei grandi falò in onore di Sant’Antonio.
Una interpretazione più antica collega l’origine dei falò di Sant’Antonio ad antichi riti pagani ispirati alle divinità fecondatrici; secondo questa interpretazione, dal modo e dalla rapidità con cui si propagavano le fiamme e dall’orientamento del fumo, si potevano trarre auspici sul raccolto. Le fiamme rappresentavano le preghiere che si elevavano al cielo in segno di devozione al Santo.
In Sardegna, Sant’Antonio è anche considerato il protettore degli animali, e secondo un’altra leggenda, conosciuta come “Sant’Antonio e i maiali”, il santo era considerato protettore dei porcari, i quali in suo onore sacrificavano ogni anno un maiale. Insieme alla carne si offriva anche un pane caratteristico che veniva impastato con la sapa e che era conosciuto come “pane di Sant’Antonio”.
Sant’Antonio Abate essendo il padrone del fuoco, è stato considerato guaritore dell’herpes zoster, un’infezione cutanea conosciuta in Spagna come “fuego sagrado”, o “culebrilla”. I sardi curavano tale infezione, facendo cadere sulla pelle infiammata le scintille che scaturivano dallo sfregamento di una pietra focaia.
Nel piccolo centro di Brunella, nelle giornate che precedevano il sedici gennaio, un folto gruppo di uomini e ragazzi si radunavano nello spiazzo di “ Su fraile” muniti di strumenti adatti al taglio della legna ( serracos e istrales ), e si dirigevano in campagna per tagliare arbusti di cisto e di lentisco ( mudeju e chessa ).
Per diversi giorni si procedeva al taglio e al trasporto degli arbusti, poi si dava luogo alla loro sistemazione. Si disponevano i rami a strati e seguendo uno schema a raggiera si creava un’alta catasta, nella cima della quale veniva posta una struttura cruciforme realizzata con rami levigati e adornata di arance.
Nei giorni precedenti anche le donne si adoperavano nella realizzazione dei caratteristici dolci di Sant’Antonio, ovvero “sas lorighittas” o “sas cozzuleddas de Santu Antoni”, che rappresentavano un dono e un atto di ringraziamento per una grazia ricevuta o un semplice gesto di devozione al santo.
Erano dolci che si ottenevano impastando farina, zucchero, uova e lievito, e ai quali con pazienza e maestria, venivano date forme simili a grandi anelli.
Mia madre, ogni anno come atto di ringraziamento al santo, faceva “sa prummissa” di preparare i caratteristici dolci di Sant’Antonio.
Si alzava presto per impastare due o tre chili di farina, zucchero, uova e lievito, poi con pazienza e maestria, arrotolava di volta in volta pezzetti di pasta e realizzava forme simili a tanti grandi anelli, che cuoceva nel forno a legna. Dopo la cottura li sistemava in un grande canestro di vimini (sa canistredda).
La sera del suddetto giorno, al primo imbrunire, aveva inizio la cerimonia religiosa, chi aveva fatto “sa prummissa” portava il suo canestro di “lorighittas” in chiesa, per la benedizione.
Le donne con le canestre colme di “lorighittas” avevano la precedenza per sistemare i cesti nella sopraelevata dell’altare e dell’abside.
La gente accorreva anche dai paesi limitrofi come, San Pietro, Tamarispa, San Lorenzo, Budoni, Berruiles e perfino da Olbia, e prendevano posto nella piccola chiesa che solitamente era già gremita dai fedeli del paese. Essendo una chiesa piccola costituita da una solo navata, pochi fedeli trovavano posto a sedere, molti stavano in piedi, altri fuori.
Durante la messa, il prete prendeva l’aspersorio per benedire “sas lorighittas”.
Per l’occasione veniva esposta in chiesa la statua di Sant’Antonio Abate con il maialino e il lungo bastone.
Finita la cerimonia religiosa, un lungo corteo gioioso capeggiato dal sacerdote, si muoveva verso il vicino spiazzo di “su fraile” dove era stata sistemata l’alta catasta di frasche. Dopo l’aspersione con l’acqua benedetta veniva appiccato il fuoco da varie parti della catasta. I ragazzi più agili e spavaldi, evitando le ancora flebili fiamme, salivano in cima per prendere la croce con le arance e ritornavano giù a tutta velocità con il loro trofeo, consapevoli di aver superato una prova importante. Nel frattempo che il fuoco si propagava tra la legna, la folla e le donne reggendo sulla testa con elegante disinvoltura le canestre, facevano il giro intorno alla catasta per tre volte in un verso e tre nell’altro.
Folate di fumo grigio e denso si levavano piegandosi al vento come uno sciame di scintille scoppiettanti che si disperdevano nell’oscurità della notte. I bagliori delle fiamme che impetuosamente divoravano le frasche, stanavano le ombre delle persone che disposte intorno attendevano gli inusuali doni. Qualcuno recitava: “Fogu, fogu peri su logu, peri sa’ idda, in donzi carrera un’istintidda”.
Le donne: mia madre, Antunina, Nevina, mai Vannedda, Paulina, Maria’e mai Zicchina, mai Assunta, mai Juannedda Poscianu, Laurina e Rimunda, mai Istevanina, mai Mariedda Sozu, mai Juannedda Bazzu, Nelia e Marianna, mai Zicchinedda, mai Juannedda Sozu, mai Tetedda’Entrone, Cia, Noemi, nonna Maria, mai Annetta, mai Esterina, mai Marianna Entrone, mai Paulina Dalu, mai Galminedda, Andriana Sozu, etc. passavano tra la folla ad offrire “sas lorighittas”.
Coloro che ricevevano “sas lorighittas” le mettevano in una busta di plastica, oppure se le infilavano nelle braccia o in un ramo levigato preparato appositamente.
Mentre le spalle delle persone s’intirizzivano al freddo dell’inverno, i loro volti si arrossavano al calore delle fiamme e dagli occhi spiccavano i bagliori che riflettevano la stessa luce inquieta del falò.
Il gigantesco fuoco infondeva luce e allegria e gli adulti continuavano per ore a festeggiare sfruttando le braci sopra le quali arrostivano le carni degli agnelli e dei maialini.
Col passare delle ore, le fiamme divampavano sempre più, divorando impetuosamente le frasche, poi gradualmente si acquietavano sino ad estinguersi. Alla fine rimanevano gli scheletri incandescenti dei rami che man mano crollavano sotto il loro stesso lievissimo peso, trasformandosi in grandi quantità di braci e infine in un grande mucchio di cenere.
Finiti i festeggiamenti, qualcuno si portava qualche ceppo spento a casa per conservarlo, poiché aveva la funzione di benedire la casa e la famiglia.
Oggi, il falò viene acceso nello spiazzo di “Galistru”
E’un gigantesco fuoco che arde per per ore e ore e richiama un folto gruppo di visitatori, e di paesani che ormai abitano altrove.
In uno spazio adiacente al falò si organizza una grande arrostita di carne. Su lunghe bancate allestite per l’occasione, la gente mangia e beve a sazietà. E’ un momento di ritrovo e di allegria, tra paesani e coloro che sono arrivati da altri paesi.
Il fuoco continua per gran parte della notte, poi con il passare delle ore le fiamme si acquietano, sino ad estinguersi.

Pasca’e tres res ( Epifania )

Trascorso il Natale, noi bambini aspettavano con gioia la sera del cinque gennaio. Era la sera in cui il paese si animava di befane.
Quel giorno nei negozi, c'era stato un via vai di persone che si recavano a fare compere e ne uscivano con buste cariche di merce. Anche mia madre aveva portato a casa tante buste e le nascose in un mobile per non farci vedere il contenuto. Noi bambini ci comportammo in modo esemplare quel giorno, eravamo ubbidienti e molto disponibili e di tanto in tanto recitavamo la filastrocca per allenarci.
Eravamo impazienti che calasse il sole perchè sapevamo che era soltanto alla sera che le befane si aggiravano tra le vie del paese e si recavano in ogni casa in cui ci fossero bambini, con buste cariche di caramelle, dolciumi, giocattoli, pastelli, quaderni, frutta secca e quant'altro potesse soddisfare i i nostri desideri. Quando arrivavano nelle case, dopo aver bussato scandivano leggermente l’uscio e attingendo dalle buste lanciavano a manciate i dolciumi, i giocattoli e quel che riuscivano ad afferrare.
Quella sera, di tanti anni fa, io, mia sorella e i miei fratelli ci eravamo disposti attorno all’ingresso, seduti “in sas cadreddas" e in " sos banchittos” ad aspettare le befane. Il portone era volutamente semiaperto. Al primo imbrunire, arrivò la prima befana, Dopo aver dato dei lievi tocchi sulla porta aveva lanciato manciate di caramelle e cioccolati, senza averci dato nemmeno il tempo di cantare la canzoncina ( avevamo intuito che era stata nostra zia ).
Dopo un poco, il latrato dei cani ci preannunciava l’avvicinarsi di qualcuno altro, infatti un istante dopo la nostra intuizione era stata confermata dai lievi passi e dal brusio che avanzavano e che subito dopo si erano acquietati davanti al nostro portone.
Ai primi tocchi sull’uscio si era messo in moto come un organetto sconquassato il coro delle nostre voci incerte e puerili che recitavano:
"La befana vien di notte
con le scarpe tutte rotte
è vestita alla romana,
viva, viva la befa…”
Poi la filastrocca si era interrotta bruscamente perché ci eravamo tuffati a raccogliere da terra caramelle, cioccolati, crackers, noci, castagne, fichi secchi e tutto ciò che era finito anche sotto i letti e sotto il mobile.
Dopo aver raccattato ogni cosa, ci sistemammo nuovamente ai nostri posti in attesa di altre befane.
Alcune, arrivarono solitarie e silenziose. Altre arrivarono in gruppi, animate da un chiacchiericcio sommesso e dalle risatine che solitamente si levavano nel vederci indaffarati a raccogliere, scegliere e mangiare ciò che più ci piaceva. Ad un certo punto della serata, senza avvertire nessun antecedente rumore venne semiaperta bruscamente la porta e ci piombò addosso una cascata di arance, mandarini e caramelle, accompagnati da una voce alterata e mascolina che diceva: “ Pro Antoni!”. Al sentire il suo nome mio fratello si precipitò ad afferrare le caramelle, ma velocemente vennero ritratte con tutto il resto, poichè erano legate ad un lungo spago che si prolungava all’esterno, mio fratello con espressione sbigottita cercò di aprire il portone, ma dall’esterno qualcuno teneva la maniglia, e si sentiva un rumore nasale discontinuo come di chi tratteneva una risata, poi venne lanciato nuovamente lo spago con i suoi addobbi, ma questa volta Antonio, non volendo abbandonare la presa, tirò tanto forte da riuscire ad appropriarsene e così staccare i frutti e mangiarsi le caramelle. Dopo qualche istante, entrò “minnannu’Entrone”( nonno Ventroni) e con aria divertita ci disse di aver incontrato una befana che correva per non farsi riconoscere.”Eh comente fidi minnà?” ( Com’era nò?)”gli chiese qualcuno di noi.“Fidi giòvana mala, chin d’unu muccadore nieddu e un’ iscoba!”(Era brutta, con un fazzoletto nero ed una scopa.) Ci rispose nostro nonno, recitando la sua parte, e andando via subito dopo.
Senza mai mostrare il viso, altre befane, bussarono alla porta inondandoci dei loro doni e come di consueto, dopo qualche istante entrava, sempre qualcuno da noi conosciuto. Mamme di altri bambini, o sorelle più grandi, o qualche nostra zia, e tutte ci dicevano di aver visto le befane andar via coi sacchi e con le scope.
Per ultimo arrivò un gruppo di befane con le voci maschili, che ci lanciò manciate continue di caramelle, cioccolati, noci, castagne, nocciole, giocattoli, pastelli, Le ultime befane erano state le più numerose e le più ricche, era come succede per i fuochi d’artificio in cui gli ultimi sono sempre i più spettacolari.
A fine serata io e i miei fratelli eravamo entusiasti e facevamo l’assetto dei regali che avevamo ricevuto, sistemandoli in un recipiente in ferro-smalto e in una canestra.
Solitamente, l’indomani mattina, (il giorno vero dell’epifania da noi chiamato “Pasca’e tres res”) tra cugini e vicini di casa, mostravamo l’uno all’altro i doni ricevuti.
In quello stesso giorno, durante il pomeriggio, un gruppo di ragazze andavano in chiesa a prelevare la statua del Bambinello Gesù ( Su Bambinu ) e la portavano di casa in casa per la consueta benedizione.
La statua veniva accolta con enorme rispetto religioso e veniva posata sui letti e portata nelle stanze affinché elargisse la protezione divina sulle famiglie.
Noi bambini avevamo intuito chi potevano essere le befane, ma facevamo finta di credere che fossero quelle che volavano con la scopa e camminavano sopra i tetti, ci faceva comodo credere così, perché diversamente sarebbe stato come annientare un sogno e rinnegare quella tradizione che per noi piccoli aveva una sorta di magia.
A quell'età era quasi doveroso credere che la realtà non fosse soltanto quella che vedevamo quotidianamente dai nostri genitori, fatta di fatica e di stenti, ma c’era una parte della vita o forse soltanto della nostra fantasia, che ci permetteva di sognare, cullandoci nel dolce torpore dell’incoscienza.



“Conservatoria" - LE VECCHIE POSTE

L’ufficio postale chiamato allora “Conservatoria fa la sua comparsa a Budoni negli anni  ’20 è ha come primo referente la signora Meloni Domenica, naturalmente questo ufficio  era molto spartano e le operazioni svolte erano semplicissime e riguardavano solo l’arrivo e la spedizione della corrispondenza. Questa inizialmente era all’interno di un’abitazione in via Nazionale, dove oggi c’è la “Gelateria del Corso”;

Negli anni ’30 - ’32 l’ufficio si spostò proprio di fronte a quello precedente sempre in via Nazionale questa volta gestito dal signora Canu Giovanna, originaria di Agrustos e moglie del maresciallo Amadori nonchè madre di Tommaso Amadori che ne ereditò la professione come previsto dalle vigenti leggi.anche qui le operazioni non erano assai diverse dalla precedente gestione;

Bisogna però aspettare gli anni ’50 per vedere eseguire le prime operazioni postali nell’Ufficio sito affianco al “central bar” dove il titolare era sempre Canu Giovanna, ma il “coadiutore” era il signor Tommaso  Amadori già più istruito come operatore, susseguirono la signora Raspa per poi arrivare la signora Paolina Chessa che divenne poi moglie del signor  Tommaso.

Nell’anno 2000 si andava a palesare la volontà dell’ente Postale, tramite il direttore regionale Maria Teresa Lilliu, di aprire uno dei primi uffici di nuova generazione in Sardegna questo perché Budoni  risultava uno dei primi siti Turistici con una crescita di operazioni tali da balzare nei primi posti nella costa nord orientale.

Completamente rinnovato l'ufficio postale, fu inaugurato dall’allora sindaco Gianni Nieddu con la presenza del direttore regionale delle poste italiane Maria Teresa Lilliu e di quello provinciale Peppino Meloni oltre che dal direttore dell’ufficio Budonese Piero Pinna in quell’occasione i locali furono benedetti dal parroco don Calaresu.