RACCONTI: RIMEMBRANZE GIOVANILI DI UN BUDONESE ABORIGENO.

RIMENBRANZE GIOVANILI DI UN BUDONESE ABORIGENO:


RICORDO DI TZIU FIORINI.

Con una grande cesta di canne e vimini portata a spalla e sostenuta attraverso una fune legata tutt'attorno nella sua sommita, giornalmente percorreva a piedi la vecchia   e   lunga   via   dell'abitato   ripetendo   con   voce   stentorea   e   ritmata "l'ultimaaa       L'ultimaaa   l'ultimaaa...". Era tziu Fiorini, l'anziano ortolano del piccolo

villaggio che proponeva in vendita i suoi prodotti. Si trattava di verdure e frutta freschissime, appena colte, di cui Tziu Fiorini andava fiero e a tutti ne andava decantando con orgoglio le virtù salutistiche. Perché erano genuine e sane, diceva, non certo paragonabili a quelle che la gente portava da fuori e nessuno sapeva come e con cosa le avevano concimate e innaffiate. I suoi ortaggi e la sua frutta invece tutti potevano vedere come venivano coltivati, e poi bastava assaggiarli perché ognuno potesse constatare concretamente che il sapore era l'aspetto piii convincente e rassicurante delta loro genuinità.

 

Tziu Fiorini la sua frutta e la sua verdura non la vendeva solo per strada e nella sua abitazione. Anche nel suo ampio capanno, costruito con canne e arbusti fluviali in mezzo at campo coltivato, a due passi dal mare, le offriva a chi vi Si recava. Cosi egli nei mesi estivi rimaneva a disposizione dei  bagnanti, che, spesso, soprattutto al pomeriggio, net rientrare dalla spiaggia, gli facevano visita. II capanno era stato realizzato   infatti   anche   per   accogliere   i   clienti   ed   era   dotato   oltre   che dell'immancabile stadera per la pesa dei prodotti, anche di basse seggiole di ferula e di un piccolo e rudimentale tavolo di canne e arbusti

Anche i ragazzi del villaggio, dopo un intero pomeriggio trascorso a nuotare nelle acque cristalline del nostro mare, o a inseguire un pallone nella parte asciutta dello Stagno Morto, al loro rientro solevano rifocillarsi transitando net grande orto ove Tziu Fiorini Ii attendeva con il capanno ricolmo di angurie, meloni, pesche e vani altri tipi di frutta. Qui, dopo averli fatti accomodare al riparo dalla canicola sui suoi piccoli sgabelli di ferula, in rapporto all'ammontare della sonnma che i ragazzi, dopo sofferta e scrupolosa colletta, potevano esibire, Tziu Fiorini ammanniva loro una lauta  merenda con una delle sue deliziose angurie striate, o con un profumato melone giallo, ovvero con delle succose pesche appena raccolte.

II nostro ortolano tra la cura e lo smercio dei suoi ortaggi e della sua frutta aveva dunque il suo bel da fare, pur tuttavia, anche perche   sospinto   dalla necessita di far fronte ai bisogni della sua numerosa prole, riusciva a dedicare parte del suo tempo anche ad altre attivita in qualche misura produttive fra le quali prediligeva la pesca sportiva. Era infatti un appassionato ed esperto pescatore dilettante, e a questo scopo nel suo capanno conservava anche fiocine, ami, lenze, reti e perfino delle nasse che egli stesso costruiva con i giunchi che crescevano abbondanti nei vicini stagni. Non aveva pera la barca, 6 vero, perch& diceva, gli era stata portata via da una mareggiata, ma grazie alla perizia acquisita nel corso degli anni riusciva a pescare da terra utilizzando lenze e filaccioli; od anche con la fiocina che, dopo aversela fissata al braccio con una fune, lanciava con mira infallibile lungo la riva del mare, all'alba o al tramonto quando i pesci vi Si accostano in cerca di cibo. E poi c'era anche abbondanza di nnuggini nella "Custera", come la gente  chiamava la foce del   rio Salamaghe che confinava con il suo orto, ed egli verso il tramonto vi andava con la sua fiocina micidiale e sovente riusciva a procurarsi almeno la cena per la sua famiglia. Per non dire poi delle anguille che pescava abilmente con le nasse e con i lombrichi, specialmente dopo gli acquazzoni autunnali, quando il torrente ingrossandosi andava in piena e sconquassava tutto l'alveo. lnsomma, Tziu Fiorini non tralasciava nessuna opportunita che gli consentisse di portare a casa cibo e risorse per il sostentamento della sua numerosa famiglia. Con tutte queste attivita l'anziano ortolano, pur non essendo privo di problemi economici, che anzi aveva eccome, riusciva a mandare avanti dignitosamente la sua famiglia.

Per questa sua multiforme intraprendenza egli era dunque conosciuto e stimato da tutti nel villaggio, ma qualche volta, per via soprattutto della sua monotona e   noiosa attivita di propaganda dei suoi ortaggi, si esponeva all'ironia e agli sberleffi dei suoi stessi compaesani.   Come quel giorno che mentre col suo cesto a spalla   procedeva   cantilenando,   come   di   consueto,   "l'ultimaaa... l'ultimaaa...", qualcuno gli faceva eco gridando , con il suo stesso tono, "chi ti siaaa... chi ti siaaa. " e tutti i presenti a ridere e sghignazzare a lungo. Cosi pure gli capita che, un giorno d'estate, mentre con la solita voce stentorea proponeva i suoi "genuini" pomodori, "i migliori del mondo", e invitava la gente ad assaggiarli, qualcuno, dall'alto della terrazza di casa, lo centrasse ripetutamente con dei grossi pomodori che casualmente vi si trovavano per l'essiccazione, gridandogli contemporaneannente "e tu assaggia questi se ti piacciono ...". E anche allora, con suo malcelato disappunto, la gente presente rise e sghignazza   a lungo.

I ragazzi del piccolo villaggio, pure loro, conoscevano e stimavano Tziu Fiorini anche per un'altra sua dote, quella di provetto e paziente fabulatore. Perche egli conosceva e volentieri raccontava delle bellissime fate. Era consuetudine invero, soprattutto nelle lunghe e tediose serate autunno-invernali quando le tenebre accorciano maledettamente le giornate, che essi, non potendo continuare per it buio i loro giochi di strada, si  recassero in comitiva nell'abitazione di Tziu Fiorini ove venivano accolti amabilmente e invitati a sedere attorno at focolare di casa, insieme a tutta la sua bella figliolanza. Si creava cosi, at tepore dell'ampio camino, una vera platea di piccoli spettatori attenti ed ammaliati nell'ascoltare, per ore, le gesta di "Petru burrula e trampa", o le malefatte dell' "Orco del Nuraghe" , ovvero le disavventure e le imprese di tanti altri personaggi eroici o sfortunati, che Tziu Fiorini magistralmente evocava accompagnando il racconto con la mimica pit) espressiva del visa e   delle   mani.   E net   raccontare egli   si entusiasmava tanto, e tanto si immedesimava nei personaggi evocati, da   convincersi che essi non fossero solo frutto di fantasia, ma realmente esistiti e vissuti. Alto stesso modo, a forza di ripeterle, si era anche persuaso, o mostrava di esserlo, che perfino le gesta e le vicende dei suoi racconti fossero stone vere ed autentiche, non frutto di fantasiose invenzioni. Fu forse per questa ragione dunque che quella volta che raccontO la favola del gatto can gli stivali, redarguendo aspramente quanti fra i presenti mettevano in dubbio che un gatto potesse essere capace di tutte quelle imprese, indignato mostra loro it libro delta fiaba esclamando "ecco guardate: 6 tutto vero, altrimenti non lo avrebbero certo potuto scrivere anche in un libro". 





IL CANE TOBY, UN AMICO INCOMPRESO

In anni ormai lontani, ogni famiglia, nel nostro paese, possedeva uno o più cani. Erano soprattutto cani da guardia, e, prevalentemente, venivano lasciati all’aperto, liberi o legati nei pressi della propria abitazione. Avveniva così che chiunque si avvicinasse alla casa, soprattutto nella notte, veniva da essi intercettato e accolto con vivaci latrati che avvisavano il padrone di casa della presenza di estranei. Ma vi erano anche molti cani da caccia e pure questi, specialmente durante le ore notturne, venivano lasciati all’esterno perché facessero la guardia alla casa. Il numero totale dei cani presenti nel territorio era davvero considerevole.

Anche nella nostra famiglia, costituita da appassionati e provetti cacciatori, avevamo diversi cani addestrati, o in corso di addestramento, sia per la caccia minuta che per la caccia grossa. Non tutti però erano considerati all’altezza delle aspettative, e così ogni occasione veniva colta per acquisire qualche nuovo esemplare con l’auspicio di farne un campione. Era successo così anche con un gigantesco bracco tedesco arrivato e accolto come un’autentica promessa. Pensavamo e speravamo di farne un ottimo elemento da ferma. Lo chiamammo Toby. Aveva una stazza davvero imponente: la sua altezza sfiorava i settanta centimetri ed il suo peso superava i 40 kg. Le  zampe erano gigantesche così come gigantesche , in rapporto a quelle degli altri cani, erano le dimensioni dei piedi e delle unghie. Toby, però, da subito, deludendo tutti, si palesò campione più che nello scovare la selvaggina, nella ricerca del cibo e nell’ingerirlo con avidità unica. Divorava voracemente qualsiasi cosa edibile gli capitasse a tiro ed aveva una particolare predilezione per la pastasciutta che mangiava in quantità considerevoli.

Si aggirava tutto il giorno per la casa annusando e sgraffignando tutto ciò che di commestibile gli capitava di adocchiare, oppure si sdraiava sul pavimento a dormicchiare pigramente fino all’ora dei pasti. Per questo suo atteggiamento Toby non riscuoteva grande stima fra i componenti della nostra famiglia. Neanche fra i cacciatori. Anche perché, a differenza degli altri cani, Toby non gioiva particolarmente quando vedeva qualcuno di casa preparare fucile e attrezzatura per una battuta di caccia. Al contrario drizzava repentinamente le orecchie e, con grande mio dispiacere, si metteva all’erta quando mi scorgeva in compagnia dell’inseparabile amico con cui solevo andare al mare, ovvero alle prese con maschera, pinne e fucile, in procinto di una pescata subacquea. Non appena io varcavo la soglia di casa munito di questa attrezzatura, Toby, fingendo inizialmente di cedere alle mie minacce per indurlo a restarsene a casa, quatto quatto, si metteva al mio inseguimento. E anche quando uscivo di casa furtivamente, e, giunto in solitudine nella scogliera prestabilita, mi immergevo in acqua convinto di avergliela fatta in barba, dopo qualche tempo, volgendo lo sguardo verso la riva, con gran rabbia scorgevo Toby appollaiato sullo scoglio più alto che scrutava attentamente tutte le mie mosse.

Questa presenza del cane, e la sua assistenza alle mie battute di pesca, mi infastidiva davvero molto. Non tanto per l’antipatia suscitata dai suoi conclamati difetti, quanto per due altre ragioni fondamentali :  una di natura psicologica e l’altra fisica. La prima era dovuta alla paura di espormi all’ironia degli amici e allo scherno della gente che poteva facilmente ironizzare attribuendo la presenza dell’animale alla mia presunta incapacità di discernere tra la pesca e la caccia. E dunque conoscendo la propensione agli sfottò dei vicini mi sforzavo di evitare con cura di espormi ai loro motteggi. Ma la ragione più impellente era senza dubbio la seconda. Capitava infatti che in quel periodo la pesca subacquea veniva da noi esercitata in apnea e a poche centinaia di metri dalla riva, non essendo possibile, senza l’ausilio di una imbarcazione, raggiungere le note secche più pescose, ma in mare aperto. Nuotavamo dunque per ore, a breve distanza dal bagnasciuga, in superficie, scrutando attentamente il fondale e tuffandoci continuamente per esplorare le cavità ove potevano trovar rifugio le nostre prede. Dopo diverse immersioni, spossati, sentivamo il bisogno, per rifiatare, di “fare il morto”, ossia di abbandonarci galleggiando inerti sulla superficie del mare. Era questo il nostro unico modo di riposare. Ma il mio riposo immancabilmente aveva breve durata, perché, dopo qualche istante di immobilità, puntualmente avvertivo un gran dolore alle spalle dovuto alle ferite provocate dalle pesanti unghiate di Toby. In quei momenti, forse più per l’indesiderata presenza del cane che per il male alle sanguinanti spalle, la mia rabbia montava al massimo e con poderosi colpi di fucile al muso dell’animale lo ricacciavo indietro mugolante. Sopraffatto com’ero dall’ira per essere stato beffato dal cane, non avevo allora la percezione della vera ragione che induceva Toby a questo comportamento.

Solo dopo molto tempo, ripensando a quei momenti , capii, con un senso di grande tenerezza e di gran rimorso, che la condotta di Toby era dettata esclusivamente da amore per la mia persona, tanto profondo quanto incompreso e immeritato.





L’APPROVIGIONAMENTO IDRICO DEL PASSATO


Non avevamo l’acqua corrente in casa, anzi nel nostro paese il pubblico acquedotto non c’era neppure, e l’approvvigionamento idrico familiare, svolto prevalentemente dalle donne di casa, era uno dei compiti giornalieri più faticosi.

L’acqua per gli usi igienico-sanitari (“l’ea pa impittà”) veniva estratta dal pozzo, più o meno distante dall’abitazione, di cui ogni famiglia era dotata. Erano in genere pozzi molto sterili, scavati a mano in un sottosuolo arido e poco profondo, fino a raggiungere la base della falda freatica, per lo più costituita da roccia scistosa e impermeabile. La profondità di questi pozzi raramente superava i 5/6 metri e frequentemente essa veniva raggiunta scavando nella roccia viva per diversi metri, nell’illusione di poter così pervenire a una falda più pingue. Di fatto, salvo casi molto rari, la portata di questi pozzi era appena sufficiente al soddisfacimento del fabbisogno idrico giornaliero di un ristretto numero di persone, e, in qualche raro caso, anche per irrigare gli orti di famiglia e/o per abbeverare le bestie. Appartenevano, questi pozzi, a privati ed erano quindi ad uso esclusivo delle famiglie proprietarie, ma vi era anche qualche pozzo fatto scavare dal Comune , perciò dalla gente chiamato “comunale” , e quindi ad uso collettivo. Ne ricordo due in particolare: uno sulla sponda sinistra del rio Budoni, pressappoco all’altezza dell’intersezione fra la vecchia comunale per Agrustos e lo stesso rio; l’altro sulla riva sinistra del rio “Oddhastreddu”, proprio all’incrocio con la carrareccia di Maiorca.

L’acqua attinta dai pozzi a forza di braccia , con pesanti secchi di latta (“li uppuali”) sospesi ad una fune di canapa, o, preferibilmente, di giunco, veniva versata nelle brocche di terracotta che le massaie trasportavano agilmente adagiandole sulla loro testa, con molta destrezza ed eleganza. Per gli usi domestici necessitavano molte brocche d’acqua al giorno, e quindi le andate giornaliere al pozzo erano frequenti. Ma le donne di casa, generalmente le più giovani, vi erano abituate e lo facevano volentieri, specialmente quando vi andavano in compagnia delle vicine con le quali amavano conversare e scambiare confidenze e notizie.

L’acqua dei pozzi però, nella generalità dei casi, era troppo “pesante” e indigesta, e non si riusciva proprio a berla se non per estrema necessità. Per l’uso potabile occorreva dunque approvvigionarsi ricorrendo ad altre fonti. Le famiglie che potevano vi provvedevano mandando settimanalmente il proprio carro a buoi con le damigiane di vetro alla fontanella-abbeveratoio di Badualga, collegata all’acquedotto urbano di S.Teodoro. Ma tra l’andata, la coda per il riempimento delle damigiane, lo stesso riempimento e il ritorno, occorrevano molte ore. Per questo motivo era necessario partire la mattina all’alba, dopo aver preparato il carro dalla sera precedente, e si rientrava solo nel pomeriggio inoltrato. Per chi non disponeva di mezzi propri, vi era anche chi offriva questo servizio a pagamento, con il proprio carro e il proprio giogo.

 Se capitava, per qualsiasi motivo, di finire l’acqua da bere prima del tempo, in alternativa all’acqua dei pozzi, quasi sempre salmastra, si poteva ricorrere alle due fonti fluviali (“li funtaneddi”), scavate alla buona nel subalveo del rio Budoni, appena protette con un tettuccio di frasche. Una di queste (“la funtana di l’Alziteddi”) sorgeva sulla sponda destra del torrente, all’altezza dell’odierno abitato di S.Silvestro; un’altra nella ripa sinistra, presso Berruiles (“la funtanedda di Berruili”). Ma era un’acqua che solo nelle situazioni di estrema necessità si riusciva a bere. E la gente lo sapeva benissimo e se ne lagnava. Tutti per contro lodavano e magnificavano la leggerezza e le presunte virtù anche terapeutiche dell’acqua di sorgenti presenti sì nel territorio, ma purtroppo distanti e non agevolmente raggiungibili. Erano molto celebrate “la funtana di l’Ea Cana” e “la funtana di Aresula”, nelle colline sotto “Monti Nieddu ” , le cui acque erano ritenute davvero salutari. Per non parlare poi dell’acqua cristallina e miracolosa delle sorgenti del Limbara, tanto benefica che, si assicurava, chi vi andasse malato   ne poteva rientrare guarito e in piena salute.

L’acqua da bere dalle damigiane con le quali era trasportata, veniva travasata all’occorrenza in apposite brocche di terracotta nelle quali, in assenza del frigorifero non ancora conosciuto se non per sentito nominare, si riusciva a conservarla ad una temperatura gradevole, dopo averla “infriscata” esponendo la stessa brocca all’esterno, durante la notte, sul davanzale della finestra più a Nord della casa. Per renderla frizzante, e quindi più gradita, si ricorreva alle cosiddette polveri Alberani costituite da sali effervescenti contenuti in due distinte bustine che occorreva versare, una alla volta, in una bottiglia dotata di tappo ermetico. Questa operazione, che solitamente si faceva prima di andare a tavola, era in genere affidata al componente più giovane della famiglia, e, talvolta, era anche motivo di contesa fra i ragazzi.

L’altra acqua, quella per gli usi generici di casa (“ea pa impittà”), dopo averla attinta dai pozzi e trasportata con le brocche di terracotta, veniva solitamente depositata in capaci bagnarole metalliche o in mastelli di ginepro (“li caghjini”) e conservata nella cucina-soggiorno della casa. L’acqua per la quotidiana igiene personale veniva invece predisposta in apposite anfore di ferro smaltato, o di ceramica, annesse alla “toeletta”, ossia a una sorta di treppiede metallico, o anche di legno, a due ripiani sovrapposti, dotato di catino, e, quasi sempre, anche di specchio. Queste “toelette” si trovavano in tutte le abitazioni, anche in quelle più modeste. Nelle case delle famiglie “benestanti”, però, esse erano presenti in ogni camera da letto, ed erano alquanto più sofisticate. Il ripiano superiore infatti era ribaltabile e consentiva di scaricare l’acqua sporca in una apposita secchia adagiata sul ripiano inferiore, accanto alla brocca dell’acqua pulita. Esse inoltre erano anche provviste di uno o più braccioli portasciugamani.

Per l’igiene del corpo, quando le avverse condizioni climatiche non consentivano il bagno nel mare o nei più tranquilli ristagni (“li poi”) del vicino torrente, si scaldava l’acqua sul fuoco e ci si lavava in capaci bagnarole zincate o in tinozze di legno.

Il sapone di solito si acquistava dai rivenditori ambulanti, che, trasportandole su biciclette o su bestie da soma, offrivano le loro mercanzie di casolare in casolare. Vi erano però anche alcune botteghe discretamente fornite di alimentari, tabacchi e “coloniali”, dove la gente poteva approvvigionarsi. Tra le più frequentate due erano a Berruiles (“Tziu M. Calzetta” e “Tziu B. Tedda”) e una nel centro di Budoni (“Tziu P. Demuru”). Quando poi, come nel periodo bellico e nell’immediato dopoguerra, sia i bottegai che gli ambulanti non ne disponevano, il sapone si fabbricava in casa, con la soda caustica e il grasso animale. Questo rudimentale sapone, molliccio e dall’aspetto decisamente sgradevole, veniva impiegato soprattutto per il lavaggio dei “panni”, nel vicino ruscello o nel pozzo di famiglia. Per il bucato ci si serviva di grosse pietre, opportunamente sistemate con la necessaria inclinazione, e veniva fatto a mano dalle donne di casa, o da lavandaie di mestiere. Questa attività mercenaria veniva svolta dalle donne di più umile condizione sociale ed il loro compenso, più che monetario, era quasi sempre corrisposto, o integrato, con graditissime provviste alimentari con le quali esse contribuivano dignitosamente a sfamare la propria famiglia.






IL PANE DEI NONNI


Nel nostro territorio non c’erano ancora i panifici ed il pane lo si faceva in casa. A tale fine ogni famiglia disponeva di un forno a legna realizzato in muratura: all’esterno dell’abitazione, solitamente protetto da una piccola tettoia, nell’area gallurese (“la palthi gaddhuresa”) ; all’interno della stessa abitazione , generalmente   in corrispondenza del camino, nelle case degli abitanti di lingua logudorese (“la palthi salda”). La ragione di questa diversità, non casuale, era funzionalmente legata alla tipologia del pane prodotto.

Nell’area gallurese del nostro Comune la confezione e la cottura del pane avveniva una volta alla settimana, in diversi tipi. Il tipo classico, quello più comune, era il pane a corona (“a lòlga”) , ma spesso , soprattutto nel periodo estivo, si facevano anche le “spianate”, ossia sottili focacce molto simili all’odierno pane di Ozieri. Si usava la farina ottenuta dalla molitura del proprio grano, quello appositamente conservato in grandi cassoni di legno per la provvista annuale della famiglia. Il giorno che precedeva l’andata al molino, il grano veniva steso su un tavolo e accuratamente “pulgatu”, ossia sottoposto ad accurata ripulitura dalle impurità della trebbiatura; poi, il giorno seguente, lo si faceva macinare nel vecchio molino, con le pesanti macine di granito mosse da un gigantesco motore a vapore. Il costo della macinatura, “la decima “, veniva corrisposto lasciando al molino una parte del macinato, oppure anche in contanti per chi ne disponeva.

  La farina ottenuta, prima della panificazione, veniva diligentemente setacciata dalle donne di casa, o da aiutanti mercenarie, con setacci manuali (“li siatzi”) , di vari calibri , ottenendo così, nell’ordine, la crusca (“lu brinnu”), la semola (“la simbula”) e la farina. Poteva essere farina di grano duro (di “tricu saldu”) o di grano tenero (di “tricu còssu”) e il pane che se ne ricavava aveva consistenza e fragranza differenti: soffice e profumato quello dal grano tenero; più durevole, nel senso che induriva meno rapidamente, quello dal grano duro. Qualche volta si impastava anche la semola e si ottenevano allora delle focacce (“lu chiagliu”) morbide e fragranti, ma indurivano rapidamente e forse anche per questo venivano volgarmente considerate il pane dei servi (di “iì lì tziracchi “).

Ogni tipo di pane da forno veniva fatto lievitare con lievito naturale, preparato nella precedente infornata attraverso il prelievo e la conservazione di piccole porzioni di pasta madre, delle dimensioni di una pagnottina (“la matrica”), sulle quali veniva praticata un’incisione a forma di croce. La pasta così preparata col tempo inacidiva producendo quei fermenti naturali che poi, nella panificazione successiva, venivano utilizzati appunto per far lievitare il nuovo impasto

Se, per una qualche ragione, veniva a mancare il pane da forno, nell’attesa della nuova panificazione, si rimediava con la preparazione di focacce improvvisate (“li cocchi”), che venivano cotte nel caminetto, sotto una coltre di cenere e braci. Si potevano preparare due tipi di queste focacce in relazione al tempo a disposizione. In caso di urgenza esse venivano preparate e immediatamente cotte senza lievitazione (“coccu aghjimu”); mentre se il tempo lo consentiva si facevano prima lievitare (“coccu letu”). Queste ultime, più soffici delle precedenti e più gradevoli, potevano durare più a lungo, mentre le prime indurivano rapidamente e dunque erano destinate ad un consumo immediato. Nel periodo in cui si macellava il maiale appositamente ingrassato per le provviste di casa (“lu mannali”) , si faceva anche un delizioso tipo di pane con i ciccioli (“ghjelda”), ossia con i residui ottenuti con lo scioglimento delle sugne per la preparazione dello strutto (“pani e ghjelda”) .

L’usanza dei “cocchi” (“sos coccos”) era meno frequente nella parte sud del bostro territorio, di lingua logudorese (“la palthi salda”) , perché abitualmente vi si cuoceva un tipo di pane di lunga durata, “su pane fresa”. La lavorazione di questo genere di pane, in altre zone dell’Isola chiamato anche “pane carasau”, è oggi praticata quasi esclusivamente da panificatori professionali, perché é molto faticosa, necessita di attrezzature particolari, e, soprattutto, richiede l’impegno contemporaneo di più persone, per almeno due giornate. Perciò, quando il numero delle donne di casa non era sufficiente , si usava scambiarsi vicendevolmente aiuto con i vicini o con i parenti[1]. Le operazioni iniziavano di buon mattino con la preparazione dell’impasto madre da cui si ricavavano sottili spianate circolari che, inserite in lunghissimi teli di lino ripiegati a libro, si lasciavano lievitare nella notte. Il mattino seguente, prestissimo, spesso prima dell’alba, le operazioni venivano riprese. Le addette, rigorosamente rivestite con lindi grembiuli e con i capelli ricoperti con ampi fazzoletti annodati dietro la nuca, si muovevano concordi e gaie, in un clima di gioiosa festa, organizzate e laboriose. Ognuna svolgeva il proprio compito con diligenza e maestria, raccontando allegramente le proprie vicende e commentando quelle altrui. Una delle donne più esperte, seduta su una bassa seggiola davanti al forno, dopo averne attentamente ripulito dalle braci la base, manovrando agilmente una larga pala vi depositava le tenere spianate già lievitate, e, dopo pochissimi minuti, con movimenti rapidi e rituali, le ritraeva una alla volta, deponendole già cotte e belle rigonfie, sopra un basso tavolo ove altre mani, altrettanto esperte e rituali, le aprivano dividendole orizzontalmente in due sottili metà. Il pane così ottenuto (“pane lentu”) poteva già essere consumato, ed era anzi così apprezzato che, tenero e tiepido com’era, all’occorrenza, veniva arrotolato ed offerto ai bambini presenti.

 Ma il lavoro delle donne non finiva qui, perché il “pane lentu” era sì buono e gradevole, ma anche poco pratico, perché dopo poco tempo induriva diventando immangiabile. E poi, per l’alto tasso di umidità contenuta, a lungo andare poteva anche ammuffire. Dunque non era adatto a una lunga conservazione. Per tale ragione esso veniva reintrodotto nel forno e biscottato (“carasau”) ottenendo delle sfoglie dorate e croccanti, capaci di durare sempre fresche e aulenti anche diversi mesi.

Questo pane fresa, o pane carasau, consumato bello croccante nello stato in cui viene conservato, scricchiola rumorosamente sotto i denti e per questo motivo, ed anche per la sua sottigliezza, veniva e viene scherzosamente chiamato anche “carta da musica” . Però se lo si bagna con l’acqua, esso, pur conservando intatta la sua fragranza, diventa morbido e soffice. Inoltre con questo tipo di pane si può creare un piatto semplicissimo e assai appetitoso. Si tratta del celebre “pane frattau” che si può preparare in pochissimi minuti avendo a disposizione del sugo di pomodoro, del pecorino grattugiato (”frattau”) e un uovo per ogni commensale. Occorre bagnare in acqua bollente delle sfoglie di pane carasau opportunamente ridotte di dimensione , che, così ammorbidite, vengono stese direttamente nei singoli piatti, cosparse di sugo e di formaggio grattugiato e infine coronate , in ogni piatto, con un uovo in camicia .







L’ILLUMINAZIONE NOTTURNA DI UNA VOLTA:

Negli anni ormai lontani del dopoguerra nel nostro paese di Budoni non c’erano le lampadine elettriche, anzi non c’era neppure la corrente elettrica, e l’illuminazione notturna delle abitazioni avveniva oltre che con le classiche candele di cera (le c.d. steariche) in tanti altri modi, dai più primitivi e rudimentali a quelli più moderni ed evoluti. 

 Le steariche costituivano il sistema più comune e diffuso, ma nell’immediato dopoguerra quando era difficile trovarle, nelle situazioni estreme, la gente ricorreva alle lucerne ad olio , rudimentalmente realizzate dal fabbro ferraio del luogo.   

Erano, queste lucerne, costituite da piccole e basse bacinelle in lamiera di ferro, a forma di triangolo, o anche quadrangolari, con dei becchi agli angoli. Erano centralmente munite di un gancio di sospensione che consentiva di appenderle in posizione elevata. Per l’uso venivano riempite con il comune olio di casa (olio d’oliva, olio di lentischio, strutto etc.) e munite di uno stoppino in ognuno dei becchi predisposti dal fabbro.

Una volta accesi gli stoppini, esse venivano appese oppure appoggiate, ma la loro potenza luminosa era assai scarsa e il grado di illuminazione dell’ambiente era tanto modesto che delle persone presenti consentiva di vedere a malapena un’ombra o poco più. Avevano poi anche il grosso difetto di emettere un fumo nerastro, più o meno denso in conseguenza dell’olio utilizzato, che anneriva gli oggetti e impregnava l’aria che si respirava, tanto che al mattino le persone scoprivano, fra l’altro, di avere anche le narici annerite e intasate.

 

Un sistema sicuramente più efficiente era quello delle lampade ad acetilene.

L’acetilene è un gas infiammabile che si sviluppa dal carburo di calcio allorquando viene a contatto dell’acqua.

Per sfruttare questo fenomeno chimico le lampade erano costituite da due parti metalliche cilindriche fra loro sovrapponibili e avvitabili.

In quella inferiore, dopo averla ripulita dei residui dell’uso precedente, si depositavano le pietre di carburo, mentre in quella superiore, costituita da un piccolo serbatoio, si depositava l’acqua.

Dopo aver riavvitato le due parti, dal serbatoio superiore, attraverso un piccolo regolatore a vite, si faceva sgocciolare l’acqua sul carburo sottostante.

Il gas prodotto, in quantità proporzionale all’acqua affluita, veniva incanalato in un condotto interno al serbatoio ed avviato ad un beccuccio esterno, posto nella parte alta dello stesso serbatoio, ove veniva acceso. La fiamma prodotta dalla combustione dell’acetilene emetteva una luce viva ed intensa che illuminava discretamente la stanza ove si soggiornava. Anche queste lampade erano dotate di un dispositivo a gancio per poterle sospendere in alto, ma potevano anche essere appoggiate su un tavolo o su una mensola. Esse inoltre, a differenza delle precedenti, potevano essere spostate agevolmente e portate anche all’esterno. Il loro rendimento luminoso era sicuramente più soddisfacente di quelle ad olio, ma avevano il difetto di emettere un odore acre e pungente che, seppure poco intenso, risultava poco gradevole.

 

Più eleganti e signorili, e forse anche un tantino più efficienti, erano sicuramente le lampade a petrolio, realizzate in ceramica e vetro.

 

Erano costituite da un elegante vaso di ceramica che fungeva da serbatoio della “petrolina”, sormontato da un paralume di varie fogge ma solitamente cilindrico, in vetro opalino o trasparente. La luce prodotta dalla combustione di un largo stoppino immerso nel liquido del serbatoio era molto luminosa e risultava regolabile mediante una piccola cremagliera in ottone che provocava l’allungamento o l’accorciamento dello stesso stoppino. Queste lampade generalmente si appoggiavano al centro del tavolo e, seppure alquanto ingombranti, si potevano anche spostare da un ambiente all’altro.

 

Le lampade ad acetilene e quelle a petrolio erano usate proficuamente per illuminare gli ambienti di uso collettivo della famiglia, generalmente lo stanzone della cucina, quasi sempre dotato anche di un ampio camino, dove i familiari consumavano i pasti e si intrattenevano a chiacchierare.

 

Qualche problema di illuminazione sorgeva però allorquando qualcuno della famiglia doveva recarsi anche solo temporaneamente in altri ambienti della casa, come le camere da letto.

In tali circostanze o si disponeva di candele a stearica, ovvero occorreva spostare la lampada comune lasciando gli altri a conversare alla fioca luminosità del caminetto.

 

Ancora più problematico risultava, soprattutto durante il periodo autunno-invernale, spostarsi all’esterno della propria abitazione al buio della notte.

Le strade infatti non erano certo illuminate, perché ovviamente non c’erano ancora i lampioni a gas, e ancor meno quelli elettrici. Dunque ci si doveva muovere affidandosi alla conoscenza dei luoghi e al chiarore delle stelle. 

Ma nelle notti più buie, venendo a mancare anche quest’ausilio, le difficoltà aumentavano e allora, se non si disponeva delle rarissime torce elettriche, occorreva farsi luce portandosi dietro qualche ingombrante lampada, oppure, se ciò non era possibile, utilizzando i tizzoni ardenti presi a prestito dal fuoco del caminetto.

 Proprio come nel profondo medioevo. 

Decisamente più funzionali ed efficienti erano le lampade a gas presenti nelle famiglie più agiate a partire dalla fine della guerra fino ai primi anni cinquanta. 

Erano costituite da un lampioncino piatto pendente dal soffitto e collegato tramite una sottile tubazione ad una bombola contenente gas liquido. Per attivare queste lampade occorreva aprire l’apposito rubinetto e far affluire il gas ad una reticella della lampada alla quale si dava fuoco con un fiammifero. La luce prodotta da queste lampade era molto simile a quella che oggigiorno si ottiene con l’elettricità, ma il loro uso era sicuramente più complesso ed anche più pericoloso.





QUELLE ESTATI BUDONESI AL CHIARO DI LUNA

In anni ormai lontani il nostro villaggio di Budoni era sprovvisto di illuminazione stradale, perché non c’era ancora la corrente elettrica, ma se questa carenza creava non pochi problemi durante i mesi invernali non ne creava affatto durante la bella stagione.

 Perché in estate, portati fuori tavolo e sedie, si usava cenare all’esterno dell’abitazione (“in la piazza di casa”), al chiarore della luna e al fresco della sera.

E sempre fuori, all’aperto, a godere della frescura (“a lu friscu”) la famiglia patriarcale, seduta sulle basse seggiole prese dalla cucina, o sui gradini dell’uscio, trascorreva la serata conversando degli avvenimenti della giornata o rievocando quelli del passato.

Coloro che passavano per strada salutavano tutti dicendo “a lu friscu seti?”, e tutti rispondevano “ a lu friscu!” oppure “vinni passeti?” .

 Frasi di circostanza che volevano significare “vi state godendo il fresco?”, e “si, ci stiamo godendo il fresco, volete accomodarvi con noi? “.

E molto spesso alla famiglia così schierata si aggiungeva la presenza di qualche vicino di casa o di amici venuti appositamente per trascorrere   in compagnia la serata. Capitava allora frequentemente che la conversazione si animasse e assumesse i toni e i modi di una vera e propria sceneggiata. Gli ospiti più estrosi infatti arricchivano la conversazione con episodi divertenti, narrati con dovizia di particolari e mimando i gesti e gli atteggiamenti più buffi dei protagonisti. Si udivano allora applausi e risate e cachinni che giungevano fino alle case più distanti.


Anche i ragazzi del villaggio, dopo cena, amavano aggregarsi, ma in piazza, nella gradinata che la collegava alla strada statale (l’odierna via Nazionale), da loro ironicamente appellata “montecitorio”; e lì, al chiarore delle stelle, si intrattenevano per ore raccontando storie, improvvisando giochi e cori, e, appena possibile, organizzando, ai danni dello sprovveduto di turno, scherzi vari, divertenti ma spesso boccacceschi, e talvolta anche inconsapevolmente crudeli.


Uno degli scherzi più spassosi e più richiesti era quello dell’aeroplano. 

Per poterlo mettere in atto occorreva la presenza occasionale del solito sempliciotto credulone. Costui, appena individuato, veniva coinvolto in una falsa disputa fra tre compari del gruppo che fingevano di sfidarsi a compiere una certa prova fisica particolarmente impegnativa e difficile, se non addirittura impossibile. “Io vi dico e vi assicuro che se anche mi legaste mani e piedi a due di voi, io sarei ugualmente capace di librarmi in aria e volare per un certo istante come un aeroplano”, diceva il primo;

e l’altro, simulando indignazione, con sicumera replicava “se ti lego io e collaborano con me due dei presenti forti e coraggiosi, tu non riuscirai neanche a muoverti. Pronto a scommettere”.

Interveniva quindi, con ostentato irridente disprezzo, il terzo compare a sostenere, con piglio deciso, che quella del sedicente ‘’aviere’’ era solo una sbruffonata, e aggiungeva di essere pronto a sbugiardarlo immediatamente se solo ci fosse stato qualcun’altro dei presenti, forte e abile come lui, e come lui disponibile a farsi legare.

Tutti i presenti a questo punto si rivolgevano alla vittima prescelta lodandone le cospicue doti fisiche e incoraggiandolo a collaborare facendosi legare all’aviere. Così raggirato, lo sciagurato, intimamente felice dell’unanime riconoscimento ricevuto, dopo un iniziale tentennamento, sicuro in cuor suo di poter fornire prova della sua abilità, finiva per dare il suo assenso, con grande giubilo della comitiva. L’aviere a questo punto, per dare inizio allo scherzo, appoggiava le sue braccia sulle spalle di uno dei complici mentre contemporaneamente le sue gambe venivano sollevate e appoggiate sulle spalle della vittima, una per parte rispetto alla testa, e strettamente legate alle sue braccia così da impedirgliene l’uso. Il povero diavolo In questa posizione, praticamente immobilizzato, si trovava con il collo strettamente racchiuso fra gli stinchi dell’aviere, con le braccia bloccate, e con il viso rivolto verso la schiena dello stesso aviere. Costui, a sua volta, risultava sospeso da terra e prono.


Tutto era così pronto per “il decollo” e, all’esilarante via di uno dei compari, qualcuno calava repentinamente i pantaloni dell’aviere che, simulando il volo, piegava energicamente le ginocchia verso terra così da attirare verso il suo deretano scoperto il viso del malcapitato . Costui, nonostante i suoi tanto disperati quanto comici tentativi di liberarsi, era in tal guisa costretto a “baciarglielo” ripetutamente, fra le risate ed il gran sollazzo dei presenti.

In questo modo tra chiacchiere, canti, scherzi e giochi vari, i frequentatori di “montecitorio” trascorrevano allegramente le loro serate, talvolta intrattenendosi fino a notte inoltrata.

Accadeva però sovente che la loro serata venisse turbata se non addirittura interrotta, da un certo evento esterno, di cui essi non potevano avere il controllo. Circolavano infatti in quel tempo numerosi autotreni che trasportavano il talco dalle miniere di Orani verso il porto di Olbia. Non essendo ancora asfaltata la strada ai cui margini sorgeva “montecitorio”, questi automezzi al loro passaggio sollevavano così tanta polvere da rendere difficoltosa perfino la respirazione oltre che problematica la stessa visibilità. Si verificava in quei momenti, tra maledizioni e imprecazioni varie, un fuggi-fuggi generale e tutti, mentre si percotevano gli abiti nel tentativo di liberarli dalla polvere, inveivano contro gli autisti che ben conoscendo gli effetti deleteri provocati dalla velocità dei loro automezzi avrebbero dovuto moderarla adeguatamente, oppure, ancora meglio, seguire un diverso percorso per non turbare le sedute di “montecitorio”. I più anziani, poi, ben dimostrando come di consueto di essere anche i più saggi e i meglio informati, sostenevano che qualcuno doveva informare della situazione il Medico Provinciale, il quale, da responsabile della salute dei cittadini qual era, se a conoscenza di quanto accadeva a “montecitorio”, avrebbe sicuramente provveduto a far asfaltare immediatamente la strada.

Disgraziatamente, però, nessuno in quegli anni ebbe modo di informare il Medico Provinciale del grave disagio dei ragazzi di “montecitorio”, e di conseguenza la strada incriminata , causa diretta dell’inconveniente , non poté essere asfaltata se non anni dopo, con grave loro cruccio e disappunto.






RAGAZZATE D’ALTRI TEMPI

(Storie di amicizia , di avventure e di pericoli scampati, dedicate alla memoria di un caro amico recentemente scomparso)


01- Nascita di un’amicizia

La nostra scuola elementare era ospitata in un’aula di fortuna. Nella vecchia Casa Parrocchiale. Era una pluriclasse,  perché il numero dei ragazzi in età scolare non era ritenuto sufficiente per costituire classi singole,  e, usciti malconci come si era da una guerra persa , lo Stato non si poteva permettere di pagare cinque stipendi a cinque insegnanti diversi. La situazione scolastica non era quindi didatticamente ideale e neppure fisicamente confortevole, perché, anche se ritenuti troppo pochi per costituire classi singole, il numero complessivo degli alunni era pur sempre esagerato per essere contenuto in una sola stanza e per giunta di dimensioni ridotte. Le autorità scolastiche però così  avevano deciso e dunque bisognava arrangiarsi e fare, come suole dirsi , di necessità virtù.

Occorreva primariamente risolvere il problema dei banchi che erano sì belli e comodi, del tipo monoposto, in legno d’un bel colore verde, così come belle e comode erano le singole seggiole pur esse in legno e verdi , ma, anche per la imprescindibile presenza della cattedra e della lavagna, purtroppo essi non  potevano essere contenuti nell’aula in numero sufficiente per tutti i ragazzi. Tuttavia  dopo un periodo iniziale durante il quale alcuni alunni dovevano condividere sia il banco che la seggiola , mettendo a stretto contatto i  banchi stessi si era trovato il modo di far sedere tutti, semplicemente inserendo, tra l’una e l’altra seggiola, una tavoletta di legno che fungeva da strapuntino. Certo era una soluzione molto precaria e piuttosto scomoda, perché era molto difficile spostarsi e perché costringeva i ragazzi a scrivere a stretto contatto di gomiti, ma perlomeno non lasciava in piedi nessuno.

 Furono forse queste difficoltà e questo contatto fisico a favorire fra i ragazzi  la nascita di vincoli di solidarietà e di molti sodalizi alcuni dei quali divennero delle vere e profonde amicizie che durarono a lungo, anche oltre il periodo scolastico. Fu proprio così che sbocciò una delle amicizie giovanili più belle ed esaltanti : quella fra Nino e Giovanni i quali finirono per condividere oltre al banco scolastico anche tutte le ore libere della giornata. Ed essi divennero così affiatati che ciò che proponeva l’uno veniva immediatamente messo in pratica dall’altro, talvolta, come vedremo, anche mettendo a repentaglio la propria incolumità fisica.

 La prima concreta manifestazione di questo affiatamento si ebbe quella volta che il maestro , con modi oggigiorno pedagogicamente inaccettabili ma allora tollerati, schiaffeggiò brutalmente Giovanni e lo costrinse in ginocchio dietro la lavagna, incolpandolo ingiustamente di un fatto che non aveva commesso. Si levò allora prontamente Nino e rivolto al maestro protestò esclamando : “a Piero non lo picchia mai perché lei è amico del padre”. Non lo avesse mai detto! Rosso di collera il maestro afferrò Nino e dopo averlo schiaffeggiato ripetutamente lo costrinse a inginocchiarsi accanto a Giovanni. Questi apprezzò moltissimo il gesto di solidarietà di Nino, e l’episodio, da loro tenuto scrupolosamente segreto ai rispettivi genitori per tema di ulteriori punizioni, contribuì a cementare ancor di più l’ amicizia fra i due ragazzi.

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02- Sfide pericolose e pericoli scampati

Finita la scuola Nino e Giovanni si incontravano in strada, e da soli, o con altri ragazzi , vi si intrattenevano per ore inventando  nuovi ed estemporanei giochi, alcuni dei quali molto spesso risultavano tanto pericolosi da mettere e repentaglio la loro stessa incolumità fisica. Il più spericolato  nel proporre questi giochi era Nino che in ognuno di essi, e in tutte le circostanze, sapeva sempre cogliere l’azione  più difficoltosa e azzardata nella quale si cimentava per primo sfidando gli altri ad  imitarlo.

 Una delle sfide  più frequentemente proposte, e più temute dagli altri ragazzi, era costituita dalla cosiddetta “arrampicata”. Si svolgeva nel cortile retrostante l’abitazione di Nino ove si ergeva , su un piano di roccia affiorante,  un muro  alto cinque o sei metri che collegava il suolo roccioso con un’ampia terrazza. Uno spigolo di questo muro non era stato intonacato e, tra le varie pietre con cui era stato costruito, presentava delle fessure profonde non più di tre o quattro dita. La sfida consisteva nel raggiungere la terrazza scalando il muro a mani nude e  senza alcun altro ausilio. Il primo ad affrontare l’impresa, come di consueto, era proprio Nino, che, una volta superata la prova, dall’alto della terrazza sollecitava i compagni ad imitarlo. L’ultimo era Giovanni, il più fifone  del gruppo, che, fino all’ultimo titubante, solo per le reiterate sollecitazioni degli altri si decideva a superare l’ostacolo ad occhi chiusi e con il cuore che gli scoppiava nel petto.

Nei dintorni dell’abitato vi era un pozzo d’acqua , a sezione circolare, profondo una decina di metri, le cui pareti erano state rivestite con un muro in pietra che emergeva dal piano di campagna per un metro o poco più. La sfida proposta da Nino in questo caso consisteva nel montare sul muro con la bicicletta e percorrerne il periplo per almeno cinque volte di seguito. Il pozzo era pieno d’acqua e c’era evidente il pericolo di precipitarvi  e di annegare. Ma , forse anche per la benevolenza di S.Giovanni Battista patrono del paese, o di qualche altro santo protettore, fortunatamente anche in questo caso nessun incidente avvenne mai.

Del suo disprezzo per il pericolo Nino dava dimostrazione anche in un altro pozzo, pur esso molto profondo, che si trovava all’interno di un  locale adiacente alla sua abitazione e dalla sua famiglia adibito ad osteria. Questa era allora molto apprezzata e molto frequentata anche grazie a quel pozzo.  Questo infatti veniva proficuamente utilizzato, in assenza del frigorifero in quel periodo non ancora conosciuto nel paese, per tenere in fresco le bevande. Capitava però abbastanza di frequente  che molte bottiglie si sganciassero dal cesto con il quale , per mezzo di una fune, esse venivano calate nel pozzo ed immerse nella sua fresca acqua. Senza alcuna titubanza, e senza ascoltare le suppliche della genitrice che cercava invano di dissuaderlo, Nino si calava nel pozzo arrampicandosi alle pietre sporgenti del suo rivestimento e con ripetute immersioni ricuperava le bottiglie e le rimetteva nell’apposito cesto. Nel frattempo sua madre ed il suo amico Giovanni, con il cuore in gola, seguivano dall’alto le sue operazioni, reggendo la fune alla quale Nino, solo per l’imposizione della madre, si era lasciato legare.

Durante l’estate i ragazzi si recavano in spiaggia e vi trascorrevano molte ore sfidandosi con tuffi e gare varie nei diversi stili di nuoto. Ma la sfida delle sfide era sempre quella suggerita da Nino : nuotare a oltranza “verso Civitavecchia” e ritenere perdente chi per primo avesse proposto il rientro. Fatte salve poche e sagge eccezioni, quasi tutti i ragazzi presenti accettavano la sfida e  iniziavano a nuotare in gruppo e in silenzio , ciascuno con la segreta speranza che qualcun altro si potesse arrendere per primo. Così intruppati i ragazzi procedevano temerariamente per ore, senza preoccuparsi minimamente di risparmiare le energie per il ritorno; e, senza mai ammettere la propria stanchezza, in perfetta incoscienza e incoranti del pericolo crescente, si allontanavano sempre più dalla riva.

Solo dopo aver percorso qualche miglio , quando gli alberi della terraferma diventavano piccolissimi e si poteva appena scorgere la linea di costa, Nino, che era bravissimo nel riprodurre le voci e gli atteggiamenti dei personaggi più stravaganti del paese, prendeva a imitare qualcuno di questi destando l’ilarità del gruppo. Era questo il segnale che tutti attendevano, perché rappresentava  l’implicito riconoscimento che la sfida si poteva ritenere conclusa senza sconfitti; e tutti insieme, come per un tacito comune accordo , invertivano la rotta e nuotavano verso la spiaggia.

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03- Un’avventura da brividi

In quegli anni viveva nel nostro villaggio di Budoni un personaggio di mezz’età,  il quale, oltre ad essere un provetto artigiano del ferro battuto, era anche un appassionato pescatore. Nel praticare quest’ultima attività però aveva il torto di usare una tecnica che non si può certo definire sportiva e ancor meno ortodossa. Abbondavano invero, in quegli anni del dopoguerra, molti residuati bellici ed il nostro artigiano era riuscito, in un modo che solo lui sapeva, a fare incetta e provvista di esplosivi vari che utilizzava per esercitare la sua seconda attività. Aveva però un  grosso limite nel praticarla, perché non possedeva una barca per poter raggiungere i posti più pescosi del nostro mare.

 Vi era tuttavia, per sua fortuna,  un sito abbastanza vicino ove i pesci in quel periodo erano veramente abbondanti, e ove si poteva pescare stando comodamente a terra. Era la Custèra, ovvero la verde e incontaminata foce del torrente che lambisce l’abitato, ove i pesci ancora oggi vi abbondano, soprattutto nella bella stagione quando vi rimangono intrappolati per la chiusura del suo sbocco a mare.  Ma occorreva superare ancora un’altra grossa difficoltà, perché egli non aveva mai imparato a nuotare, e, si sa, i pesci investiti dall’esplosione affondano e rimangono a lungo sul fondo del torrente prima di affiorare e galleggiare in superficie. E poi, comunque, rimangono pur sempre in acqua. Dunque in questa sua sciagurata attività aveva bisogno dell’aiuto di qualche esperto nuotatore in grado di raggiungere e ricuperare i pesci “pescati”.

 Conoscendone la perizia nel nuoto, il “pescatore” si rivolse pertanto a Nino , suo buon conoscente, che a sua volta non poté che estendere l’invito al suo inseparabile amico Giovanni ; e così entrambi i ragazzi, nella loro giovanile esuberante incoscienza,  col solo ed esclusivo fine di dare dimostrazione della loro abilità nel nuoto, un bel giorno si recarono con costui alla Custèra e assistettero a tutte le sue manovre. Giunto sul posto il nostro trasse dal tascapane, che portava a tracolla, due candelotti di esplosivo , vi praticò con una lametta due incisioni longitudinali, vi unì un detonatore al quale aveva innestao un corto spezzone di miccia , aggiunse al pacchetto un ciottolo e legò strettamente il tutto con uno spago. Con in bocca una sigaretta accesa e il micidiale ordigno  in mano, il “pescatore” si muoveva lentamente lungo la riva della foce scrutandone il fondale e lanciando continuamente dei piccoli sassi in acqua. Appena notava l’accorrere dei pesci , con la sigaretta dava fuoco alla miccia e lanciava il micidiale ordigno in acqua. L’immediata esplosione sollevava una gigantesca colonna d’acqua con un fortissimo boato, e un istante dopo il fondale della Custèra biancheggiava di una miriade di pesci morti; che i due ragazzi, tuffandosi ripetutamente e con grande diletto, raccoglievano e lanciavano sulla riva. Una volta recuperato tutto il pesce l’operazione veniva ripetuta con identiche modalità . Proprio in una di queste operazioni avvenne che  l’ordigno lanciato in acqua non esplose. Allora Nino, obbedendo ad una tanto incauta quanto scellerata richiesta del “pescatore, con un’incoscienza che solo la giovane età poteva giustificare, si tuffò prontamente in acqua e gli riconsegnò intatto l’ordigno.

 Solo molto tempo dopo i due ragazzi, ricordando con raccapriccio quell’impresa, capirono e convennero di averla scampata bella anche in quella circostanza. Probabilmente ancora una volta per pietà e intercessione del solito loro Santo Patrono.

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04- Un progetto mai realizzato

Nino e Giovanni, sempre inseparabili, stanchi dei soliti giochi, avevano preso l’abitudine di scorrazzare in lungo e in largo nei dintorni del paese, spingendosi sempre più in là verso le colline che coronano il nostro bel territorio. Ogni volta provavano nuove emozioni ed un crescente interesse nello scoprire sempre nuove contrade , nuova vegetazione e nuovi scorci panoramici. L’entusiasmo per queste avventure cresceva viepiù e con esso cresceva anche il desiderio di spingere la loro conoscenza verso orizzonti più vasti e regioni più lontane. Per poter realizzare questi ambiziosi obiettivi però i due amici sentivano che non era sufficiente la sola loro buona volontà. Occorreva disporre di equipaggiamenti adatti , di attrezzature varie ed anche di altre risorse umane. Insomma appariva loro necessario trovare altri ragazzi con la stessa loro passione e gli stessi loro interessi, per coinvolgerli organizzandoli in una apposita associazione. E intanto , nell’attesa della concreta nascita di questa associazione, le avevano già trovato un nome. L’avrebbero chiamata C.I.M.E., acronimo che, secondo la loro ambizione, voleva significare “Compagnia Italiana per meglio esplorare”.

  Per dare finalmente concreto inizio all’attività dell’associazione fu subito progettata un’escursione sul M. Nieddu , per esplorare la bella formazione granitica che sovrasta, sul lato nord-occidentale, la dolce catena di colline che incornicia il nostro amato territorio. Con questo proposito i due amici coinvolsero un loro conoscente abitante nel borgo di Nuditta, il quale vantava una maggior conoscenza dei luoghi, e nutriva , come loro, il desiderio di visitare quel monte.

 Partirono dunque all’alba, in bicicletta e con gli zaini zeppi di vettovaglie. Giunti alla fine della carrareccia ciclabile, abbandonarono le bici e proseguirono a piedi lungo sentieri appena segnati dal transito di animali vaganti , superando folti cespugli di cisto , di mirti odorosi , di verdissimi corbezzoli, e vaste distese di felci scoparie . Mano a mano che salivano dovettero attraversare boschetti di oleastri, di ginepri, di lecci e   di sughere, accompagnati dal fischio di merli saltellanti fra i loro rami e dal gracchiare rauco di ghiandaie dai colori vivaci. Di quando in quando poterono ascoltare anche i richiami delle pernici che risalivano le pendici del monte dopo essersi abbeverate alle sorgenti della valle. Giunti , dopo ore di marcia, in prossimità della vetta, con loro malcelata apprensione furono accolti dal minaccioso volteggio di diverse aquile reali che a quei tempi ancora vi stanziavano. Arrivarono finalmente in cima sul finire della mattinata e, seppure molto provati dalla fatica, si sentirono appagati e felici per il grandioso spettacolo che si offriva ai loro occhi. Il panorama che potevano ammirare a 360 gradi era davvero mozzafiato, potendo il loro sguardo spaziare dalla splendida costiera di Budoni e S.Teodoro fino all’entroterra più remoto, potendosi posare anche su numerosi agglomerati urbani fra cui spiccavano quelli di Olbia e Padru.

Di questa escursione Nino e Giovanni parlarono a lungo ai loro amici con il proposito di convincerli ad aderire all’associazione che intendevano fondare. I loro inviti purtroppo non furono mai accolti, e così il loro progetto non ebbe il successo sperato . Ma non finì nel dimenticatoio, perché, negli anni e nei decenni successivi, ad ogni loro incontro, essi si salutavano sempre con un “cinque” e un “cime”.

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